His master’s voice

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Magari ve lo siete chiesto anche voi: qual è il fatto storico più rilevante del 1848?

Ed il fatto più rilevante del 1968, qual è?

Continuando nel gioco, ed approssimando la contemporaneità, potremmo porci la stessa domanda per il 1989 e seguitare col 2001 fino a raggiungere il presente: qual è il fatto rilevante del 2021? Capisco che, per molti di voi, si tratti solo di un gioco eppure, per chi si occupa di narrazione, per chi costruisce (o demolisce) l’ecumene, è un esercizio fondamentale. Per la moltitudine, che si limita ad abitare il mondo nello stato in cui si trova, non si tratta neppure d’un gioco ma d’una perdita di tempo tout court. Se avete tempo da perdere, seguitemi: magari non ve ne pentirete.

Se portate la mente al 1848, oggi, non potete contare sulla memoria: per il fatto ovvio che, altrimenti, all’anagrafe sarebbero ben oltre il vostro centosettantatreesimo genetliaco. Posto che non siete, in effetti, uomini dell’ottocento, tornare al 1848 impone un qualche esercizio culturale: visto che poca ne dispongo (intendendo cultura), poca ne chiederò. Nei manabili della scuola superiore, il 1848 è, alternativamente, la c.d. “primavera dei popoli” o l’anno di pubblicazione deIl Manifesto di Marx ed Engels. Chiamati a scegliere, e forti dell’assunto che, in termini di rilevanza, sono decisive le conseguenze, è pleonastico confermare che il fatto più rilevante del 1848 è stato l’esercizio intellettivo dei due tedeschi. Non vi sforzate a darmi torto: Ferdinando I di Borbone l’avete rimosso, Rosolino Pilo non sapete neppure chi sia stato ma Karl Marx, almeno di nome, vi dice ancora qualcosa.

Il 1968, complice l’innesco della memoria dei più vegliardi, è già più saturo di fatti: l’assassinio di Martin Luther King e di Bob Kennedy, l’offensiva del Tèt, la c.d. “rivoluzione culturale” di Mao, la c.d. “primavera di Praga” (con annessa repressione) la “contestazione giovanile” e la “rivoluzione sessuale”. Nell’immaginario collettivo, sempre seguendo l’adagio della rilevanza, il 1968 è passato alla storia per la “contestazione”: il primo, serio, scollamento fra governanti e governati nel dopoguerra. Governanti di Washington, di Praga, di Parigi, di Roma, di Pechino sotto un qualche scacco ad opera dei relativi governati. Questa la narrazione dei fatti che pretenda un qualche file rouge fra gli eventi d’un certo rilievo: fermo restante che la nazionale italiana, nel ’68, avrebbe vinto anche gli europei.

Certamente avrete notato una cosa: lo schema narrativo del 1848 e quello del 1968 sono perfettamente sovrapponibili. Fatti profondamente diversi, che si verificano in spazi remoti e disomogenei, vengono raccolti sotto un’unica campana che suona un ritornello: “primavera dei popoli” ovvero “contestazione”. Ma chi suona la campana?

Nel caso del 1848, la “primavera dei popoli” è la diretta conseguenza di un mass-media di fresco conio: il giornale. Per chi era in grado di leggere, vale a dire la borghesia, lo spazio tra Palermo e Torino si fece periferico. Mentre gli scambi commerciali, nella penisola, comportavano il passaggio di tre o quattro barriere doganali, l’informazione (ma avrei voluto dire la narrazione) era in grado d’unire Palermo a Torino in un giorno. In pochi decenni, grazie ai giornali, l’ecumene del bottegaio di Torino, che a fatica superava l’area strategica d’affari del panettiere, s’accorse che la Sicilia era popolata e che, nell’isola, stava succedendo qualcosa di rilevante per il “suo” mondo: lo stesso mondo dell’alfabeta siculo. Va da sé che, compiuto il Risorgimento, la prima cosa che i bottegai d’Italia pretesero fu la libera circolazione delle merci per lo stivale: ma non furono le impellenti necessità dei mercati a vivificare la “primavera dei popoli”.

Ciò che vale per il ‘48, a fortiori, vale per il ’68. Gli Stati Uniti erano impegnati nella rovinosa campagna del Vietnam mentre in Italia, quanto in Francia, si faceva i conti con lo scarto fra “il sol dell’avvenire” e la condizione fattuale. Sui muri, ancora visibili agl’occhi del bambino che vi sta scrivendo, gli slogan di una qualche reclame: “siamo realisti, pretendiamo l’impossibile”; “prendete i vostri desideri per la realtà”; “sotto i sampietrini c’è la spiaggia”; etc., etc., etc.. Un decennio di televisione stava dando i suoi frutti; sulle labbra dei contestatori, la pubblicità, mentre l’uomo più autorevole d’America era un anchorman della CBS: Walter Cronkite. Quello che fu il giornale per la “primavera dei popoli”, è stata la televisione per la “contestazione”. Non a caso, l’anno prima, Gianni Morandi era già tutto preso dai Vietcong mentre, nel lustro precedente, si divincolava col controllo parentale della mamma sulla fidanzatina. Va da sé che, oggi, il proposito morandiano di “spaccare il muso” all’antagonista, nella strenua difesa d’un investimento emotivo, sarebbe considerato un’istigazione a delinquere. Avvezzi come siamo (o, così, vorrei sperare) al succedersi isterico dei fatti, ed al dilatarsi dello spazio utile all’esistenza, proposto dal mezzo televisivo, non dovrebbe sfuggire che il 1968 è stato un evento in prima serata: la prima ribellione televisiva.

Non è stata, certo, l’ultima.

Il fatto più rilevante, quanto improvviso, del 1989 è stato, senza dubbio, il crollo del Muro di Berlino: l’unico muro per antonomasia, al netto di quello dei Pink Floyd. Un fatto tanto fragoroso e così rilevante che, la maggior parte di voi, lo pone ben al di sopra del Massacro di Piazza Tienanmen: anche i cinesi! Ciò a dire che, se si pone la domanda fatidica ad un cittadino della Repubblica Popolare, il fatto più significativo del 1989 rimane il crollo deIl Muro. In termini di conseguenze, su scala globale, magari è pur vero ma, nella prospettiva storica d’un angolo di mondo ordinato a Cina, e popolato dai cinesi, non dovrebbe affatto essere così.

Non dovrebbe essere così per il fatto ovvio che, stante la localizzazione degl’individui, è l’evento prossimo il più rilevante; la sofferenza per la scomparsa del congiunto non ha la magnitudo della morte del vicino ed, ancor meno, della perdita d’un warao nel delta dell’Orinoco: anche se sono, tutti, membri effettivi del genere umano. Lo stesso dovrebbe valere per il fatto storico se è vero, com’è vero, che non c’è fatto del ’66 più rilevante dell’alluvione a Firenze: beninteso, se si popola una qualche valle dell’Arno. Per i cinesi, sembra che la regola non valga: come se abitassero un mondo più vasto del conosciuto. Forse è così e, forse, è lo stesso mondo che popoliamo anche noi.

Fermo restante che il cinese, evidentemente, non è convinto d’abitare la Cina ma l’universo mondo, prendiamo per buono (e per tutti) che il fatto più rilevante del 1989 sia il crollo deIl Muro e cerchiamo di venirne a capo.

Già dal 1985, con l’elezione di Michail Gorbačëv a Segretario del PCUS, l’amministrazione Reagan fu informata dell’intenzione sovietica di rinunciare, unilateralmente, all’impero: con conseguente disimpegno dall’ordine Urbis et Orbis della c.d. “Guerra Fredda”. Della cosa, successivamente, furono edotti anche i satrapi delle repubbliche popolari: fra questi Erich Honecker, reggente della DDR. Francois Mitterand, Helmut Koll, Maggy Thatcher e gli altri leaders europei erano, tutti, consapevoli della faccenda che, capite bene, sfuggiva solo alla casalinga di Voghera: la televisione del “mondo libero”, ancora, non ne stava parlando. Quando ne parlerà (inteso la televisione e, inteso, a cose fatte), alla casalinga di Voghera verrà proposta la favola della vittoria di Ronald Reagan, piuttosto che il disimpegno sovietico: qualcuno, ancora, ci crede. Nel 1987, a favore di telecamere, Ronald Reagan recitò anche la parte dell’Ich bin ein Berliner (NDR: il famoso discorso di JFK) sotto Il Muro (NDR: “Tear down this wall!”) quando sapeva già benissimo come sarebbero andate le cose: una via di mezzo fra la presa per il culo ed il monologo di Antonio nel Giulio Cesare di Shakespeare!

Ebbene: dal 1987, tutti quelli che dovevano sapere, si stavano preparando al nuovo equilibrio a venire: quello scevro dalla divisione in blocchi e con una narrazione tutta da definire. Tutti significa anche Erich Honecker e la televisione di Stato della DDR. La Cecoslovacchia, per prima, inizia a rilasciare passaporti e visti per consentire il passaggio della Cortina di Ferro: direzione Austria. La TV della DDR lancia la notizia, così che, anche i tedeschi orientali, prendono a defluire in Cecoslovacchia per raggiungere la Germania Ovest, via Austria. Il confine Tedesco Orientale con la sorella Cecoslovacchia, non è presidiato e può essere valicato senza visto: in effetti, se non fosse stato per la solerzia televisiva, quel confine non conduceva direttamente ad Occidente. I cittadini della DDR, informati dei fatti dalla televisione di Stato, presero d’assalto la frontiera: al seguito di Trabant in assetto da transumanza. Per allentare la pressione sul confine cecoslovacco, un oscuro funzionario della DDR (tal Günter Schabowski) informò la casalinga di Berlino, in diretta televisiva, che “si può attraversare il muro, anche da oggi”. Non l’avesse mai fatto.

Visto che la casalinga di Berlino, come quella di Voghera, abita il televisore ma non il mondo, sentita la televisione, si precipitò alle pendici del muro. Nessuno aveva avvertito i doganieri del Check Point Charlie: Honecker (che se n’era già andato) non ne sapeva nulla e così Koll e tutti quelli che avrebbero dovuto gestire la situazione. Tutti, leaders o casalinghe che fossero, presero atto dell’evaporazione deIl Muro in tempo reale. Di più: ai telespettatori internazionali, ignari del pastrocchio imbastito dalla TV di regime, apparve che Il Muro fosse venuto giù a furor di popolo. Il Muro è venuto giù a spallate, questo è vero, ma l’innesco non è stata la volontà popolare (magari avversa a quella dei governi) ma il precipitare degli eventi determinato dall’impiccio televisivo.

La ri-unificazione tedesca, avvenuta un anno dopo, è stata la prima rivoluzione televisiva. Non la voleva Gorbačëv, non la voleva Mitterand né Koll né, tantomeno, Regan, Bush o chi per loro: non la voleva nemmeno Andreotti. Secondo me, a maggior ragione oggi, non l’hanno voluta nemmeno i tedeschi: né dell’est né dell’ovest. Non l’hanno voluta le televisioni, che l’hanno ampiamente determinata. Il collasso deIl Muro di Berlino è, sì, il fatto storico più rilevante del 1989 e degli anni a seguire: ma non nell’accezione ch’intende la storia contemporanea (NDR: fine del Comunismo e di tutto ciò che ne deriva). La caduta deIl Muro, in luogo dei fatti di Piazza Tienanmen (NDR: dove ancora, ad esempio, insistono a definirsi comunisti, in barba alla nostra visione storica), è stato un ciclopico effetto farfalla.

Non a caso, l’era che succede alla guerra fredda è comunemente nota come globalizzazione. Il termine stesso, globalization, ha avuto la stessa velocità di propagazione ed effetti simili al collasso del viadotto Polcevera. Coniato nel 1990, da Anthony Giddens, ha varcato i confini del libro (The Consequences of Modernity; p. 34) e s’è imposto all’attenzione (anche) della casalinga di Voghera in molto meno d’un lustro. Per darvi qualche coordinata sulla propagazione delle idee nei tempi che furono, basti pensare che il Cristianesimo s’è imposto dopo più di 3 secoli e che l’Also Sprach Zarathustra, al macero nella prima edizione, entrò nelle accademie con Heidegger. In altre parole, ciò che vale per i “fatti” vale per le idee: imponendo, ad esempio, ai filosofi (o sociologi) di affrontare il proprio immaginario ancora in vita: fatto inusuale, tanto per Platone che per Marx o per Nietzsche.

Con globalizzazione, Giddens, voleva accennare alle Teoria della Complessità; l’unica che può dar conto d’un fatto come il crollo deIl Muro di Berlino: autorganizzato, catastrofico e dagli effetti tanto imprevedibili quanto incontrollabili. In pochi spiccioli, la fortuna del termine di Giddens è tutta inscritta nella ri-conoscenza (prima ci sono stati Lorentz, Morìn, Prigogine, il Santa Fe Institute ed altri), dei moderni sistemi sociali, come sistemi estremamente complessi: spinti sull’orlo del caos dalla comunicazione elettronica. Entro questa dimensione, diventa difficile dar torto al sociologo inglese.

Ora.

Visto che siamo, tutti, inclusi in sistemi sociali dall’equilibrio instabile, dovremmo imparare a non retroagire, piuttosto che amplificare, i fenomeni catastrofici che ne seguono: io, voi, la leadership politica (od un qualche altro decisore) o la casalinga di Voghera. Comportarsi, per intenderci, come John Anderton al cospetto del presunto omicida del figlio: messo, ad arte, all’interno d’un’orgia probatoria. Il film, Minority Report, è del 2002 e non per caso. Già! Qual è il fatto storico più rilevante di vent’anni fa?

Silenzio.

L’evento storico occorso alle Twin Towers non è, di per sé, un fatto storico: la Guerra al Terrorismo, invece, sì. Jacques Derrida, nell’immediatezza dell’evento, provò a fare la parte della veggente Aghata: con l’identico risultato. Non c’è, se non all’interno d’un preciso progetto ideologico, nessuna inferenza logica fra l’attentato dell’11 settembre e la successiva invasione dell’Iraq e dell’Afghanistan: eppure è successo. Come, ad esempio, non s’è mosso una foglia all’indomani della strage alla Columbine quanto dell’attentato di Oklahoma City. Il mondo non ha invocato il “terrorismo internazionale” dopo il bombardamento del complesso di Al-shifa, per un fatto ovvio: la Storia è il succedersi dei “fatti” e non dei “dati”! Data una qualsiasi situazione, la Storia (quanto la storia personale) registra l’accadere dell’uomo entro, più spesso di quanto si lasci credere, uno spazio amplissimo di discrezionalità. Opportunità che abbisognano d’una riflessione superiore allo spazio del picosecondo: il tempo utile col quale, oggi, si pretende di assumere una decisione. Nel tempo d’un picosecondo, l’essere umano si riduce ad un cane in preda ad un riflesso condizionato. Un cane, dopotutto, ammaestrato.

Così, nel piccolo giardino di casa nostra, abbiamo collezionato i M-A-R-T-I-R-I (NDR: ma la Jihâd non la stavano facendo gli altri?) di Nassiria ed elevato una “guardia giurata” (mercenario?) ad eroe nazionale: vi ricordate Fabrizio Quattrocchi? Questa bolla ideologica, con il ritiro delle forze occupanti dall’Afghanistan, non accenna a mollare la presa. Infatti non abbiamo invaso l’Afghanistan perché il mullah Omar rifiutò di consegnare Osama Bin Laden a Bush Junior: ci siamo andati per liberare le afghane dal burka!

Ma allora, qual è il fatto storico più rilevante del 2021?

Di certo posso scommettere su cosa non lo è. Che, prima o poi, gli occupanti avrebbero lasciato l’Afghanistan mi sembra scontato: che sia successo nel 2021, vale per l’almanacco del giorno dopo. Nello stesso modo, la narrazione che pretendiamo come verità (tanto la “guerra al terrorismo” quanto la “globalizzazione economica”, sulla quale mi riprometto di scrivere qualcosa) non dà cenni di cedimento: per cui insistiamo a guardare il mondo con gli stessi paraocchi ideologici di prima. Ed allora qual è il fatto storico del 2021?

Troppo presto per dirsi ma, a me pare, che il fatto storico meno rilevante dell’attuale è stato l’Attacco a Capitol Hill: quello per cui è stato “moderatamente” condannato Jake lo sciamano e scagionato dall’impeachment Donald Trump. Per una volta, e spero non sia la sola, invece di cavalcare gli animi s’è preferito soprassedere: sopportare per poter gestire. Solo così le pareti di Capito Hill non si sono sgretolate, come Il Muro, e la Storia non ha registrato il fatto. L’ordine regna a Washington e, per questa volta, …

va benissimo così.

 

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