La Terra è piatta! (di Andrea Pancini)

Il 22 febbraio scorso, inclusa fra le notizie sportive e le previsioni del tempo, la CBS News annunciava la dipartita di Mike, Daredevil (“temerario”), Mad (“pazzo”), Hughes.

Partito per i cieli, con un razzo a vapore, Mike Hughes voleva dimostrare, camera fotografica alla mano, che la Terra è effettivamente piatta. Proiettato verso i 1.500 metri (vale a dire ad un’altezza inferiore ad un decimo del sorvolo d’un comune aereo di linea), ad appena 500 metri d’altitudine, il razzo ha visto bene di precipitare al suolo: trascinando con sé la vita dell’aviatore.

Cose che capitano.

Sarebbe bastato consultare le malebolge di Dante ed il buon Hughes avrebbe apprezzato come Dante, Virgilio, Ulisse e Diomede fossero tutti convinti della sfericità terrestre: ferma restante la sorte iniqua di chi sfida la grazia divina, sulle ali limitate della ragione umana. “Fatte non foste per viver come bruti” ma per nuotar fra i pesci! Detto, fatto.

Questa, grossomodo, la cultura dei secoli bui. Ben altra la retta via dell’esplorazione scientifica, sulla quale, “l’uomo più brillante che abbia mai conosciuto” (così, uno stretto collaboratore di Hughes, ricordava il temerario) si è smarrito. Quello fatale, non era il primo razzo costruito da Mark Hughes: segnatamente si trattava del sesto! Ai primi cinque era andata bene: il sesto, semplicemente, è andato in avaria. La spinta era quella giusta; i calcoli parabolici, corretti: il razzo ha avuto un’avaria. Se il paracadute principale non si fosse incendiato, un attimo dopo il lancio; se i detriti del paracadute non avessero manomesso il flap; se si fossero aperti i paracadute ausiliari: Mark Hughes si sarebbe comodamente adagiato sul suolo terrestre.

Prescindendo dalla tediosa questione se la Terra sia effettivamente piatta, e dalla fatica di doverlo dimostrare, l’esplorazione scientifica di Mark Hughes è una linea di pensiero tanto moderna quanto diffusa.

Intendiamoci.

Se la Terra non fosse piatta, alla Nasa non avrebbero accolto male il disastro del Columbia. L’idea stessa che la traiettoria dello space shuttle si sia risolta in una parabola, in luogo di una linea diretta alla stratosfera, è stata, a lungo, un mistero. Invece di concludere, subito, che ciò che sale può anche (se non proprio “deve”) scendere (“what goes up, MUST come down” – Isaac Newton), si sono prodigati a dimostrare come, la missione Columbia, non fosse esplorazione spaziale ma una gita fuori porta: di quelle che si rovinano se si guasta il motore.

Senza scomodare l’esplorazione spaziale, è nell’esplorazione del quotidiano che la Terra è squisitamente piatta. Provate a spiegare, ad un qualsiasi genitore, che il figlio deve ripetere l’anno scolastico. Fatelo adesso, in piena emergenza Covid, e vediamo se non vi trovate dritti in tribunale a brache calate. Se la Terra non fosse piatta, l’iter scolastico non si dovrebbe per forza risolvere in una linea retta. Lo stesso vale, naturalmente, per la gravidanza: provate a spiegare ad una donna moderna che dalla fecondazione al parto non passa una (sola) linea retta.

L’esplorazione del quotidiano, senza scomodare altri luoghi, si risolve nella geometrica precisione d’un assemblaggio Ikea. Accogliete l’imballo e l’aprite: le mani, leste, si raccolgono sull’istruzioni. Le specifiche d’assemblaggio del vostro mobile sono la riduzione bidimensionale di dove stiperete le vostre cose. Due pannelli, né uno di più, né uno di meno. Ottantasei viti in un modo, trenta in un altro: tasselli calcolati al micron. Cacciavite in mano e cervello in stand by. Non c’è niente da capire nell’avventura d’allestirsi un mobile (fai-da-te) Ikea. Si afferra la mappa bidimensionale e la si segue passo, passo: non ci sono alternative. Chi ha concepito il mobilio, di certo, non ne ha previste: se manca una vite, avete sbagliato qualcosa. Le specifiche Ikea sono a prova d’errore; il packing e gli elementi all’interno, perfetti in ogni singola parte: se qualcosa va storto, è colpa vostra. Fra l’idea del mobile (la mappa) ed il mobile nella realtà (il territorio) non c’è soluzione di continuità. Il mobile, come del resto la Terra, è piatto! Non lo dico io, badate bene, ma lo sostenete voi! Se, con “sensata esperienza”, scorgete una vite sul pavimento, non mettete in predicato il progetto: maledite voi stessi.

Ora, però, mi chiedo: chi ha realizzato i mobili Ikea, ne ha mai montato uno nella realtà? Sembra ovvio di no.

In casa non c’è un tappeto: il pavimento è sconnesso. La stanza è piccola: dove lo stendo l’elemento di due metri? Il gatto, nella smania d’aiutare, s’è perso una vite giocando. I bambini non sono riusciti ad evitare lo sportello, malamente appoggiato sul letto. L’avvitatore, usato dal neofita, ha spanato la vite. Il pannello m’è scivolato di mano, la pazienza s’è esaurita ed altrettante cose non sono andate come previsto. La visione geometrica del disegnatore Ikea non considera nemmeno che qualcosa si possa volgere al peggio: se dovesse succedere, si cautela che non sia colpa sua. Ecco: i’ vorrei che, come per incantamento, i topografi dell’Ikea si trovassero in mare aperto con la mappa fra le mani e, con quella soltanto, facessero salva la vita.

Difficile da credere ma è successo davvero.

Cristoforo Colombo, il padre della modernità, colui che ha scoperto quanto la Terra fosse piatta, disponeva d’una mappa: l’equivalente delle specifiche d’assemblaggio Ikea. L’estensore della mappa non s’era mai mosso da Firenze e capiva la marineria come un matematico corteggerebbe una donna. Per il mitico Paolo dal Pozzo Toscanelli, estensore della mappa di Colombo, il Catai di Marco Polo si trovava a 4.400 km dalle Canarie: un buon quinto della distanza effettiva! Un marchiano errore di calcolo che i savi di Salamanca, chiamati a giudicare la fattibilità del progetto colombiano, non mancarono di rilevare. Ante illa (davanti a questa, tradotto dal Latino, e riferita all’Asia) una corona d’isole ancor più prossime; un buon approdo per accorciare il viaggio. Non a caso, Colombo, battezzerà come Antille il circondario delle Bahamas: scambiando Cuba per la Cina!

Più interessante la partenogenesi della mappa di Toscanelli: le “sensate esperienze” contenute nel Milione di Marco Polo. Il mercante veneziano, come tutti sanno, descrive il suo viaggio come se la Terra non fosse piatta: facile per chi viaggia per terra. Le distanze, naturalmente, da esprimersi in intervalli di tempo: “venti giorni di cammino sulle montagne”, “un mese di cavalcatura nel deserto”; “quattro albe per mare, a bordo d’un giunco”; etc. Questo secondo le parole di Marco Polo, che il matematico ed astronomo Toscanelli aveva avuto cura di riportare nel suo mappamondo: da cui la mappa, finita nelle mani di Colombo. In termini moderni, e non troppo sbagliati, Toscanelli aveva provveduto a quantizzare (ciò a dire “ridurre” a valori discreti) l’esperienza fisica di Marco Polo. Un’operazione complicata, certo, ma alla portata d’un matematico di buona fattura: intimo dell’Alberti e del Brunelleschi. Peccato che il miglio terrestre, che aveva accompagnato l’esplorazione di Marco Polo, fosse ben più corto del miglio nautico. Da questo abbaglio, il mappamondo di Toscanelli rilevava l’enormità dell’Asia: triplicata rispetto alle dimensioni reali e quindi più prossima all’Occidente di quanto non fosse.

Un abbaglio alla Kaluza Klein che, aggiungendo una piiiiiiiiiiccola dimensione spaziale in più, avrebbe unificato la forza di gravità con quella elettromagnetica: peccato che non sia così. Eppure, come la teoria di Kaluza e Klein, il mappamondo di Toscanelli faceva quadrare tutto. Il globo terrestre misurava esattamente quanto quello d’Eratostene. I moti mareali, rilevati sulle coste atlantiche, finivano per essere coerenti con l’effettiva distanza dell’oltremare, senza bisogno d’un’Atlantide in mezzo all’oceano. Infine, così ragionando, si solleticava le voglie d’un passaggio più breve della circumnavigazione dell’Africa, adesso che, caduta Bisanzio, la Via della Seta s’era fatta più incerta.

Converrete con me: non v’è fallo nell’innamoramento di Colombo per la chimera di Toscanelli. Eppure, ancora, la Terra poteva sembrare una sfera: se Colombo non avesse dimostrato il contrario.

Il viaggio di Colombo, se non fosse per la miglior sorte, è sovrapponibile alla fine d’Ulisse come la racconta Dante. Colombo, saldo nella bidimensionalità della Terra, procede in linea retta. Esce da Palos ed imbocca, sicuro, la via degli Alisei: un cauto esploratore avrebbe fatto il contrario! Un buon marinaio, che s’addentra nell’ignoto, naviga sempre controvento: lasciandosi il favore del vento per la ritirata. Non a caso, prima di Colombo, l’incognita nelle cartine nautiche si nobilitava di creature mostruose: suggerendo ai naviganti ch’è meglio procedere con parsimonia e fuggire a gambe levate. Così, ad esempio, procede qualunque vivente in territori inesplorati; un cane, un gatto e persino le blatte procedono così: solo Icaro, giustamente punito dalla mitologia greca, affronterebbe l’ignoto ad ali spiegate.

Come Ulisse, Cristoforo Colombo mente: mente spudoratamente al proprio equipaggio. Tarocca l’effettiva distanza percorsa e gioca di prestigio coi viveri. All’alba dell’ammutinamento, tira fuori la mappa di Toscanelli e ne discute con gl’insorti: finisce per convincerli, come un analista finanziario alle prese coi risparmi del cliente. Quando le Antille si dimostrano remote alla posizione impressa nella mappa, strappa ancora un fiato alle onde che gli promette l’equipaggio: un lieve errore di calcolo, date alla mappa un giorno ancora. La sera del giorno dopo, terra!

La mappa di Colombo aveva dimostrato d’aver ragione: di certo non aveva niente a che fare con la verità. I quattro reperti nudi, emersi dall’età della pietra e prospicenti la nave, non ricordavano la superiore civiltà dei Mongoli: non quelli di Marco Polo, comunque. Dei Mongoli, nessuno aveva le competenze; tanto nella modestia delle capanne che nel maneggio della lingua di Maometto: che i Mongoli avevano già appreso in India. Superate le Antille, poi, c’è voluto coraggio per scambiare Cuba per la terra ferma; ma quella (la terra ferma) si doveva raggiungere e, dopo la delusione d’Hispaniola, si provvide a fermarsi: onde evitare spiacevoli prese di coscienza. La missione, al primo soffio dei Contralisei, poteva dirsi compiuta. La Cina era lì: in linea retta, ad ovest di Paperino (quello in provincia di Prato!).

Per molti anni ancora, Cristoforo Colombo credette d’essersi recato in Cina: piuttosto che approdare nell’Atlantide a cui non credeva. Oggi si dice, a ragione, che non sia stato neppure il primo: congedandolo, così, anche dall’onere della scoperta. Pure Atlantide, che la mappa di Toscanelli non contemplava, ha dovuto cambiar nome (America): mentre le isole, prospicenti la Cina disegnata dal fiorentino, sono ancora Antille ed in America insistono gl’Indiani. La modernità di Colombo s’inscrive alla prefazione della II edizione della Critica della Ragion Pura: senza cognizione di causa ma con tre secoli d’anticipo.

Lo streben di Colombo, di Galileo, Torricelli, Hughes e tutti noi, si riduce nel sostenere un modello che si sforza di farvi aderire la realtà: con amplissimi margini di successo. A Colombo è andata bene ma non già per la bontà del modello ma per la paternità: non è stato Colombo a disegnarsi la mappa quanto tutti noi non abbiamo concepito le specifiche d’assemblaggio dell’Ikea. Ci mettiamo la vita sopra, è vero, ma ne sappiamo quanto mia figlia s’intende di telefonia cellulare. Se c’è un paradosso, nella storia di Colombo e Toscanelli, è proprio nell’inversione della celebrità fra lo sperimentatore scientifico ed il teorico della scienza: di solito è al secondo che spetta la gloria. Nel caso di Toscanelli, e del suo modello planetario, è successo il contrario. Come se, visto che è un fai-da-te, m’imputassi la partenogenesi dei mobili Ikea piuttosto che la fede cieca nelle istruzioni di montaggio. Come se, il padre della Relatività, fosse Eddington invece di Einstein.

Come se la storiella dell’Uovo di Colombo non riguardasse questi ma Brunelleschi. La storia la conoscete tutti e così il contesto. Una nobildonna spagnola, in una serata di gala, rimprovera a Colombo la facilità d’un assemblaggio Ikea, specifiche alla mano. Colto nel segno, Colombo avrebbe invitato la signora a far sostenere un uovo sulla sua verticale. La donna avrebbe rinunciato e Colombo, praticata una lieve ammaccatura sul guscio, mostrato l’arcano. Peccato che, nel caso di Colombo, l’idea di mettere il Catai lì dove l’ha trovato, non fosse sua ma del Toscanelli. Così come, l’aneddoto dell’uovo, è riportato dall’aretino Vasari ed imputato al Brunelleschi con riguardo al progetto della cupola per Santa Maria del Fiore. Tutti reclamavano il progetto e Brunelleschi non lo mostrava: per il fatto ovvio che, rivelata la teoria, uno qualunque dei suoi concorrenti, nell’Opera del Duomo, l’avrebbe saputo realizzare. Se ci pensate bene, la tutela del copyright è la diretta conseguenza della planimetria terrestre.

La glassa ideologica che ha permesso a Hughes la celebrità d’un minuto, fra le notizie sportive e le previsioni del tempo della CBS, è pane per imbecilli: che la Terra è piatta è ampiamente dimostrato. Di converso, che non basti la reperibilità delle specifiche tecniche per il volo a reazione è tutto da provare. Nel caso di Mark Hughes va benissimo credere nell’errore umano: tanto era “matto”! Eppure …

i taikonauti cinesi faticano ad avvicinarsi alla Luna; dimostrando, se fosse il caso, come la realtà si scosta molto dalla sua rappresentazione: a prescindere dalla volontà.

Andrea Pancini
Andrea Pancini
Andrea Pancini è un pettegolezzo che qualcuno ha messo in giro. I ben informati sostengono si tratti d’uno scrittore, in concorso al Premio Campiello 2017. Sembra s’interessi a quello che la gente dimentica: vane speranze, amori desolati, eroi vigliacchi, dolori addominali e varia umanità. C’è chi dice che, prima, sia stato qualcos’altro ma che, d’allora, vaghi la notte al chiarore d’una sigaretta: sempre l’ultima. Ignorato dai più, di lui si sa poco se non l’eco di buone letture: Chanel, Versace, Armani. Ad oggi, si sussurra, viva spiaggiato sullo Stretto di Scilla.

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