Lettera del sindaco Caleri sul referendum costituzionale

Caro Direttore, qualche settimana fa mi avevi invitato a esprimere la mia posizione in merito al referendum. Non averti risposto prima di oggi è dipeso non dall’incertezza della scelta, visto che ho pubblicamente dichiarato la mia adesione al “sì” già durante l’estate, bensì dalla volontà, visto il mio ruolo, di evitare discussioni che purtroppo troppo spesso hanno assunto toni e modalità per me inaccettabili. Giunti ormai a pochi giorni dal voto, ho ritenuto però doveroso, anche per l’amicizia che ci lega, rispondere al tuo cortese invito, indicandoti i motivi della mia scelta di voto, ma soprattutto cogliendo l’occasione per scambiare alcune impressioni su tutto ciò che è ruotato e che ruoterà attorno a questo referendum, qualunque sia il suo esito. Perdonami se il mio non sarà un testo “corto”, adatto a Facebook, ma sono convinto che a forza di affermare che la gente non legge post articolati e più lunghi, abbiamo finito tutti per disabituarci a compiere riflessioni più elaborate, abbandonandoci così al dominio dello slogan e realizzando così il classico esempio della profezia che si autoavvera.

Nel merito della mia scelta di voto, ho deciso da mesi di appoggiare il percorso della riforma costituzionale aderendo al fronte del sì. Ti preciso subito che questa scelta non dipende dall’aver considerato questa riforma perfetta. Detto che trovo quasi impossibile realizzare una riforma costituzionale articolata che sia oggettivamente, palesemente ed esclusivamente migliorativa, ritengo che questa riforma nel suo complesso potesse avere caratteristiche diverse e, per me, migliori.

La questione, però, è che le riforme, soprattutto quelle costituzionali, nascono sempre da compromessi. Nel ’46-47 la DC, il PCI , il PSI e gli altri partiti della costituente avevano visioni estremamente variegate e in molti casi opposte su quella che doveva diventare l’ossatura portante della nostra nazione. La grandezza della loro opera fu quella di trovare comunque un punto di accordo, rispetto al quale ognuno rinunciò a una parte dei propri obiettivi per riuscire comunque a raggiungere il fine principale: la riappacificazione di un popolo diviso dalla guerra civile e la costruzione di un nuovo stato democratico e pluralista che si ergesse sulle rovine della dittatura fascista. Quando, durante gli studi universitari, ho avuto modo di approfondire il processo costituente, sono rimasto estremamente colpito dalla diversità di intendimenti che avevano animato i nostri padri fondatori. Molti costituenti dovettero rinunciare all’idea di veder convertiti in articoli costituzionali le proprie rivendicazioni ideologiche e i modelli di organizzazione statale che ritenevano assolutamente migliori di quelli propugnati dai loro colleghi. Fu doloroso, lungo e difficile. Alla fine, però, pur sapendo di aver rinunciato a tanto, ebbero la consapevolezza di aver ottenuto il massimo che si poteva ottenere e fu per questo che giunsero a una votazione quasi unanime.

Oggi di nuovo, anche se in misura più attenuata, ci troviamo come cittadini a fare una scelta simile: confermare una riforma imperfetta sulla quale faticosamente si è trovato un accordo (paradossalmente anche da parte di alcuni che oggi invitano a votare no) o rigettare tale possibilità, permanendo nella situazione attuale per poi immaginare il raggiungimento di una riforma migliore? Ebbene, prima ancora di entrare nel merito dei singoli aspetti della riforma, il motivo del mio “sì” sta proprio in questa scelta.

Sono sufficientemente vecchio da aver assistito a innumerevoli dichiarazioni sulla necessità e sulla volontà di modificare la costituzione. La fine del bicameralismo perfetto, la necessità di frenare la decretazione d’urgenza, l’effettiva rappresentanza delle istanze territoriali da parte del senato, la diminuzione del numero dei parlamentari: a rileggere tutti questi temi mi viene da sorridere perché sono gli stessi sui quali con alcuni giovani amici ci accaloravamo in lunghe discussioni lungo i corridoi di giurisprudenza. Il problema è che correva l’anno 1990, il muro di Berlino era caduto da pochi mesi, il pc era ancora un marchingegno da guardare con rispettosa diffidenza e internet non aveva emesso neanche i primi vagiti. Da allora sono state innumerevoli le occasioni nelle quali ho assistito a maestosi progetti riformatori, terminati però sempre con la stessa conclusione: il compromesso è inaccettabile, dobbiamo tendere a una riforma migliore.

Ebbene, io mi sono stancato di attendere una riforma migliore.

Ritengo che uno dei mali peggiori della nostra società, non solo della politica, sia il benaltrismo, movimento di purtroppo ampia estensione costituito da coloro che in ogni occasione risolvono tutto dicendo “ci vorrebbe ben altro!” , guardandosi bene dall’indicare “cosa”. Intendiamoci so bene che non tutti i sostenitori del no sono dei benaltristi. Tra essi si annoverano tante persone che semplicemente hanno una visione diversa dalla mia e per le quali il mantenimento delle attuali garanzie costituzionali è un bene superiore e prevalente rispetto alle opportunità collegate al loro cambiamento.

Io rispetto il loro pensiero, ma non la penso così.

Io ritengo che la nostra Carta possa essere adeguata ai tempi, soprattutto in merito a quegli aspetti che maggiormente risentirono di esigenze contingenti al periodo storico in cui fu approvata. Il bicameralismo perfetto nasce dopo la sconfitta sanguinosa di una dittatura per evitarne i successivi rigurgiti. Oggi davvero possiamo pensare che siano necessarie quelle molteplici letture delle due camere per evitare l’insorgere di una dittatura?

Io credo che il nostro sistema di governo abbia bisogno di una struttura più snella che metta la maggioranza nella condizione di poter davvero governare, perseguendo gli obiettivi in base ai quali è stata votata e realizzando quei programmi sulla base dei quali sarà giudicata al momento di ritorno alle urne.

Questa, dal mio punto di vista, è vera democrazia. È il modello che ho potuto sperimentare positivamente da sindaco e che vorrei vedere ribaltato anche sul governo nazionale.

Sarebbe veramente troppo lungo entrare dettagliatamente nel merito dei contenuti, ma mi limito a sintetizzare le mie posizioni:

· Fine del bicameralismo perfetto – assolutamente d’accordo per i motivi sopra esposti

· Composizione del senato: preferivo una soluzione slegata dai consigli regionali, ma se la legge, aldilà della prima tornata, prevederà comunque la scelta da parte dell’elettore del consigliere da deputare alla rappresentanza senatoriale, la limitazione non mi sembra così rilevante.

· Fiducia al governo da una sola camera: assolutamente d’accordo

· Modifiche al procedimento di presentazione e analisi dei ddl popolari – assolutamente d’accordo

· Abbassamento del quorum del referendum in caso di 800.000 firme – non solo sono d’accordo, ma io mi sarei spinto ben oltre, alzando ulteriormente il numero di firme per eliminare al contempo il quorum

· Controllo preventivo costituzionale delle leggi elettorali – Sono d’accordo. Aggiungo che ritengo sbagliato respingere una riforma costituzionale basandosi sulle conseguenze del disposto costituzione/legge elettorale. Visto che la norma costituzionale è prevalente su quella ordinaria, sarà la legge elettorale a dover essere cambiata, non certo la riforma costituzionale.

· Fine della legislazione concorrente stato/regioni – sono d’accordo, perché credo che la sovrapposizione porti soprattutto confusioni e allontanamento dall’assunzione di responsabilità (è sempre colpa dell’altro legislatore)

Come vedi, caro direttore, la mia adesione al “sì” è motivata dalla concordanza sulla maggior parte degli aspetti della riforma, che ritengo quindi essere un’opportunità da non perdere.

Detto questo, però, in pena onestà sono anche convinto che una vittoria del sì non sarebbe sufficiente a risolvere le problematiche che attanagliano il nostro paese.

La lunghezza dei processi di legiferazione è solo uno degli aspetti penalizzanti rispetto ad altre nazioni, ma non è che risolvendo tale problema passeremo dall’inferno al paradiso, senza più aver freno a un maggior sviluppo. Allo stesso modo, se vincesse il no sono propenso a credere che non si innescherebbe alcuna catastrofe nucleare e l’Italia continuerebbe a svolgere il suo ruolo sul panorama internazionale esattamente come ha sempre fatto.

Dico questo perché le due cose che più mi hanno lasciato allibito e anche avvilito in questa campagna referendaria sono stati da un lato i toni apocalittici usati da entrambe le parti e dall’altro l’aggressività verbale, quando non addirittura l’offensività delle parole e dei giudizi.

Renzi non è il messia e la riforma non è il suo verbo inattaccabile, ma non è neanche Lucifero alla testa dell’impero del male. Allo stesso modo i sostenitori delle due posizioni referendarie non sono cretini, folli, corrotti , immaturi, complottisti, venduti, estremisti o qualsiasi altro terribile giudizio sia circolato ossessivamente sui media nell’ultimo periodo. Sono, almeno per la parte che si comporta in buona fede, semplicemente cittadini che esplicano posizioni diverse e vogliano dare il loro contributo per il bene del loro paese.

Nei luoghi dove la discussione ha emarginato l’offensività e la violenza per privilegiare la riflessione e l’accettazione reciproca, l’immagine degli elettori che ne è uscita è stata quella di cittadini enormemente più razionali e preparati di quanto non si possa pensare soffermandosi ad ascoltare i tifosi.

Io mi auguro quindi che il 4 dicembre, che voti sì oppure no, sia questa la maggioranza silenziosa che farà un piccolo pezzo di storia del nostro paese. Anche perché, parafrasando il Presidente Obama, quando la mattina del 5 ci alzeremo, ancora storditi dalle urla, dalle lotte esterne o fratricide, dagli insulti e dalle tensioni, ci accorgeremo che, comunque sia andata a finire, il sole sarà sorto lo stesso e che noi saremo comunque una nazione e un popolo non così dissimili da quelli del giorno precedente.

Un caro saluto

Nicolò

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