L’Incavata dei “senzavolto”… (Seconda parte)

(Immagine di repertorio)

Di seguito, la seconda parte del racconto di Alessandro Municchi L’Incavata dei “senzavolto” che ha aperto la nostra rubrica online Il racconto… (Più). Alla fine del testo, l’autore ha inserito il commiato finale rivolto all’ex Direttore della Biblioteca Rilliana di Poppi, Alessandro Brezzi, il quale ha ispirato l’intera storia che vi abbiamo presentato.

(Clicca qui per leggere la prima parte del racconto)

L’Incavata dei senzavolto
– o “Del successo dei Minimi Sistemi” –

Di Alessandro Municchi

(Seconda parte)

Il marasma era generale.
L’intera Segreteria dei Gonfalonieri, organo dove si riunivano i responsabili delle varie comunità dell’Incavata, sembrava un vero e proprio mercato.
I Podestà gridavano; i Capitani di Popolo pure.
L’ufficiale sostituto vicariale aveva rinunciato a qualsiasi comunicazione frontale.
La Cancelleria prendeva nota.
Il Principato pure.
L’ennesima serie di decisioni inappellabili e insindacabili dei Gonfaloni.
Utili come certe decisioni legate alle presunte capacità intellettuali e i mirabilissimi gusti artistici di alcuni bislacchi rappresentanti.
Nihil novi sub sole.
Assi di legno e tavolacci.
La situazione si fece ancora più caotica quando due rappresentanti si presero ad ingiuriarsi: prima sul piano meramente “professionale” e poi, rigorosamente, su quello gentilizio e personale. Il Primo Delegato di Stato, che doveva, secondo (im)precise consuetudini e in mancanza del Vicario Generale, presiedere il concistoro venne travolto.
Dagli eventi.
Dalla propria – rinomata – incompetenza.
L’aristocrazia (im)politica degli imbecilli.
Alexemonos, che aveva smesso di prendere nota dei vari squilibri mentali del concistoro da un bel pezzo, data l’ampiezza documentaria già a sua disposizione in tal disciplina, occupava il suo seggio, sedile piazzato proprio a fianco della cattedra del Segretario Generale Gonfaloniere. Kostantinos seguiva il costruttivo dibattimento con la consueta aria impassibile; necessaria più che mai in certe situazioni: dovunque era in servizio il Cancelliere, Kos era proprio dietro di lui. Gli orbi del ragazzo parevano quasi incolori. Lui li vedeva, come già li aveva visti e, quasi certamente, avrebbe continuato a vederli.
Loro.

Il lavoro alla Cancelleria, quel pomeriggio, si rivelò quanto mai spiacevole: non è mai una cosa saggia mettere nero su bianco le incapacità dei potenti. Specie quando devi informare colui che detiene il potere più alto e autorità bastante per schiacciare tutti i subordinati. Compresi quelli che sapevano troppo e scrivevano troppo.
Alexemonos portava sul naso un paio di occhiali alemanni con lenti in prezioso cristallo, lenti incapsulate in una montatura di prezioso metallo; serratura ben posta sulla narice. Senza bisogno di asticelle o di altri elementi che ne garantissero la sicurezza.
Nessuna requie per i giusti.
Mai.
Il Cancelliere impugnava la penna lignea e argentata con insolita voluttà, eppure, non di meno, si accorse, senza neppure alzare il capo, che qualcosa inquietava il suo aiutante e pupillo.
Gli occhi del ragazzo erano ai limiti dell’opalescenza, con uno sguardo fisso, calato sul nulla e su tutto, che avrebbe spaurito una gran bella massa dei presunti leoni che stavano là fuori.
Il vegliardo conosceva bene quello smarrimento, quella vasta e inespressa paura che – germe orribile ed invincibile – rode tutto ciò che sei e che sarai; lentamente e inesorabilmente.
Kostantinos si scosse e, dopo aver percepito le perplessità del maestro, si rimise più puntualmente a lavoro.
Ma l’inganno non inganna chi è più accorto dell’ingannatore.
Io so che tu sai che io so.
Ecco cosa riflettevano gli occhi del Cancelliere.
La questio è un’altra, ben più inimmaginabile e incredibile: il vegliardo ha davvero compreso il vero spaurimento del pupillo.
Loro.
«Quando è principiato tutto, ragazzo mio?», chiese improvvisamente Alexemonos.
Gli orbi slavati di Kos si sbarrarono, un moto di sorpresa lo sconvolse; a rompere ulteriormente – e definitivamente – la proverbiale aplomb del giovane.
«Magister, ma come…?»
La perspicacia del Cancelliere s’era ritrovata con ben altre gatte da pelare.
Altro non sì può dire.
«Rispondi!», immobile il ragazzo non stentava a riconoscere in quel tono, così altero e autoritario, quello del suo maestro; sorpreso, perplesso, immobile.
«Un anno, più o meno, maestro…», rispose il pupillo, pieno di dubbi e considerazioni che non aveva troppa intenzione di esporre.
Il Cancelliere si alzò e si diresse verso la finestra maggiore, collocata proprio sul lato sinistro dell’aula. Il sole stava velocemente calando dietro le antiche colline dell’Incavata. La luce dell’astro tingeva d’una tonalità crepuscolare le bianche pietre di certe pievi; lontane e solitarie.
Istanti interminabili di silenzio e di insondabili congetture calarono sul Tesoro come una tenebra; senza tempo e colore.
Il ragazzo si strinse le spalle e prese un poco di coraggio.
«Chi sono, maestro?», chiese con un timore insolito Kos. Il vegliardo tuttavia non pareva aver udito la domanda: ancora il volto del Cancelliere era volto al tramonto; la sua mente a chissà quali, lontani, pensieri.
Di nuovo il silenzio calò sulla Cancelleria, un silenzio che pareva ora divenire una manifestazione plastica e spietata. Di più.
Il vegliardo tornò infine a parlare.
«Chi sono loro, Kostantinos?», scandì Alexemonos.
La testa del ragazzo si chinò con fare vergognoso, poi annuì. Non aveva il coraggio d’incrociare lo sguardo del Cancelliere; sguardo ora divenuto spaventosa decorazione d’una espressione che mai il ragazzo aveva visto sul volto del mentore.
«Sono ciò che siamo sia io che tu, Kostantinos…», replicò con non celata malinconia il vegliardo, «Persone…»
«Non è possibile!», procedette il ragazzo.
Un gesto secco e tutt’altro che vago del Cancelliere lo acquietò.
«Sono persone, e, contemporaneamente non sanno d’esserlo… Ecco! Il termine utile potrebbe essere non persone…»
«Non riesco a capire…», replicò il virgulto.
«Sono vivi, questo è certo!», ribatté il Cancelliere, «Ma non sanno d’esserlo, o forse, più plausibilmente, non riescono ad avere chiara la loro stessa esistenza: sono individui che non hanno mai davvero cercato di fare chiarezza in sé stessi; bloccati da cosa? Difficile a dirsi… Molto probabilmente è un delirante binomio dei contesti e degli eventi ad averli ridotti così…»
Orrore. Incredulità. Costernazione.
Il giovane non riusciva a comprendere.
«Ma, maestro, com’è possibile che…?», la domanda gli morì, strozzata e frettolosa, sulle labbra.
«Non tutti sono così, questo già lo avrai notato!», il ragazzo annuì vistosamente, «La faccenda è più semplice di quanto tu non creda, e assai più grave…», disse allora il Cancelliere, «Il vuoto lo si compensa in molti modi, Kostantinos; e nel corso dei secoli, gli uomini, spesso e volentieri, hanno scelto d’ignorare, di fingere. D’indossare una maschera perpetua, una corona di carta; tutto perché hanno scelto ciò che è semplice da accettare…», un breve e terribile intermezzo, «Quelli che tu vedi – come io li vedo, come altri li vedono, senza mai osare confessarlo nemmeno a sé stessi, temendo la follia – sono Loro, povere creature che, forse per sempre, sono come cupe pareti rischiarate da una tremenda luna: vuote e senza voce… Senza volto.»
Gli incubi più terribili; i più inconfessabili dubbi. Tutte le incertezze del mondo. Questo sembrava dondolarsi sulle giovani spalle di Kostantinos. Non c’è cosa più tremenda che un imbecille sicuro di quel che pensa e dice. Il terrore tolse requie e respiro al povero ragazzo.
Il Cancelliere, nuovamente, comprese e intervenne prontamente.
«Lascia che i dubbi, i timori, le domande fluiscano in ogni parte della tua mente, mio caro… Perché chi non ha dubbi, chi crede troppo spesso alla propria voce, alle proprie idee, ancorato a realtà irreali, senza desideri – se non quello legato a pane e pecunia – allora smarrirà tutto ciò che è davvero importante…», nuova pausa del vegliardo, «È il successo dei Minimi Sistemi, ragazzo mio… E tuttavia sempre la vittoria rifuggirà le incognite e terribili grinfie di quanti auspicano tali sistemi, perché anche questi esistono! Li agognano e tramano senza requie né sonno, né sogni, né idee…»
L’astro del giorno – quella sera – sembrava congedarsi con maggiore malinconia e le ombre dei vasti pioppi e dei cipressi che leste s’allungarono verso il maniero ben più spaventevoli; come orribili dita d’una mano inclemente ed ingorda che bramava la gloria, la grandezza e la Memoria di cui il palazzo era simbolo e scrigno, al centro di quella valle che era l’Incavata.
Le civette d’Atena, fortunatamente, sempre vegliano su di noi; sulle nostre piccolezze, debolezze e incapacità. Le nottole di Minerva – con il loro canto – guidano chi si è smarrito in notti senza fine.
A cercare loro e a guidare chi non è più come loro.
Mai giudicati. Mai dimenticati. Mai lasciati soli.

Commiato

Nel chiudere questo mio patetico, presuntuoso e – fortunatamente – breve scritto posso infine confessare che mai il fantasma del Direttore mi ha perseguitato durante la stesura; il ricordo di Sandro nel pieno della sua energia e volontà, questo sì che mi ha accompagnato. Come un benevolo spirito virgiliano.
Non altro.
Un ricordo di molti, moltissimi episodi ed eventi, cose che affondano alla mia lontana infanzia, quando già, come del resto avrebbe sempre fatto, mi affibbiava i soprannomi più incredibili e assurdi. Una familiarità che ben ha saputo coltivare e accrescere, con la sua opera e il suo legame d’amicizia con chi scrive queste poche ultime righe.

Alessandro Brezzi

Il ricordo nelle nostre interminabili querelle sugli argomenti più incredibili, dagli incunaboli alle strutture socio-politiche dell’età moderna; dalla mia inveterata passione per l’araldica sino ad arrivare al fatto che, forse non poi così a torto, un giorno o l’altro la mia personale utopia mi avrebbe piantato in asso.
Il ricordo dei colossali rimproveri che mi facevi quando mi lasciavo andare alla mia celebre disillusione e malinconia.
Quante cose dette e fatte, eh, Sandro?
Mi mancheranno le nostre interminabili chiacchierate, le nostre peregrinazioni letterarie. Non di meno l’espressione attonita di quanti cercavano di seguire quanto stavamo dicendo.
Posso solo invocare il suo perdono, a quanto rimane della sua memoria e della sua opera; che forse, un giorno, le sarà resa giustizia.
Questo piccolo racconto è per te.
Sperando solo che l’eco di esso giunga a te, nella mia mente ancora chino sulle carte di cancelleria e sui libri che tu amavi e proteggevi da tutto e tutti.
Amore di cui ti saremo per sempre debitori.
Addio, Sandro. Addio da un così poco degno amico.

Alessandro Municchi