“La Cura”: omaggio a Battiato

Della vita, in generale, si può dire questo: si risolve, sempre, nel consegnarsi ad altri.

L’azzardo di “essere al mondo”, in massima sintesi, è tutto qui: a chi mi consegno? Cosa ne farà di me? È il cruccio del pezzo di legno che sceglie di darsi a Geppetto: preferendo essere bambino invece della gamba d’un tavolino a cui, Mastro Ciliegia, lo considerava particolarmente vocato. È l’orrore di Schopenhauer, che già si vedeva masticato dai cattedratici a venire. È l’amarezza della “troia”, ridotta ad un cammello in un Suk: costretta a darsi a chiunque, per qualsiasi cosa.

La breve carriera politica di Franco Battiato si eclissò proprio per questa frase, rivolta ai parlamentari europei: “Queste troie che si trovano in Parlamento farebbero qualsiasi cosa, dovrebbero aprire un casino”. La frase, occorre ammetterlo, è scioccante: ma solo per i pigri mentali. Prostitute, per Karl Marx, erano i salariati: costretti a vendersi per un corrispettivo. Il paragone, fra l’altro, non l’aveva nemmeno coniato lui: faceva parte della propaganda con cui l’Inghilterra liberale voleva convincere gli schiavisti delle Americhe a passare dalla loro parte (“uno schiavo è come una moglie. Se si ammala ve ne dovete curare; quando invecchia perde l’abilità alla funzione. Un salariato, invece, è come una prostituta: la pagate per il valore della prestazione”). Per la stessa ragione, Lev Tolstoj si oppose strenuamente all’emancipazione dalla servitù della gleba nella Russia zarista: preferendo interpretare il ruolo del buon padre in luogo del liberatore (alla Marx) ma non dell’oppressore.

L’uscita di Battiato dalla scena politica, in luogo di una gaffe risibile, smentisce Platone: i filosofi non dovrebbero darsi alla politica (cfr: Massimo Cacciari), semmai ad altro. Fra l’altro, oltre al misticismo di Teresa d’Ávila e Giovanni della croce, va benissimo anche la musica.

Franco Battiato, per come noi lo conosciamo, si è dato alla musica; non senza quella stitichezza dell’essere ch’accompagna la decisione fatale di darsi a qualcun altro: cosa ne farà di me? A Milano, Franco Battiato incontra Giorgio Gaber: il Geppetto della sua storia. Dieci anni di gavetta (dal ’64 al ’75) appresso ad Ombretta Colli ed al Club ’64: il primo live al Parco Lambro. Qualche pubblicazione fra gl’indipendenti (Jolly Records, Bla Bla) e finalmente la Ricordi: all’epoca affiliata EMI. EMI Italia, come da programma, aveva i mezzi per fare del talento un fenomeno popolare. Così L’Era del Cinghiale Bianco e poi Patriots: ma non era abbastanza.

Franco Battiato entra di prepotenza nella vita degli italiani con La Voce del Padrone. Sette tracce e 31 minuti di rara bellezza: bellezza condivisa. Naturalmente mi riferisco alle note musicali, quelle che toccano i cuori: i testi, riservati alle menti dei più, rasentano, alternativamente, l’invettiva o lo sproloquio. Anni, ed anni, di “cantautori” poetici spazzati via alla velocità della luce: voci improbabili, tollerate in ragione dell’impegno, cestinate nello spazio d’un nano secondo! La ricetta musicale, di converso, è figlia della sperimentazione musicale del progressive-rock e del synth pop che, in Italia, aveva già seminato consensi e raccolto perle (Io Mi Fermo Qui ed Impressioni di Settembre, per citarne alcune): EMI stessa non aveva aspettato, di certo, Franco Battiato (l’industria discografica, prima che il cavallo s’azzoppasse, aveva lanciato e faceva correre Alan Sorrenti).

Consegnarsi a chi farà di te una pop star, prelude una qualche rinuncia a sé. Quella che ho chiamato “stitichezza dell’essere” (la resistenza a darsi), per Battiato, è finita con la resa: inforcare un paio d’occhiali da sole (“per avere più carisma e sintomatico mistero”) e levare Bandiera Bianca. Poi, garantito il sequel (L’Arca di Noè) va bene anche se ricevi lo zuccherino: tolta la mia, non credo che Genesi abbia venduto più di tre copie. Ciò non di meno, Franco Battiato ha dato tanto alla musica: alla musica del suo tempo! È una vecchia lezione che, io, avrei dovuto imparare: ma è evidente che l’apprendere non corrisponde al capire. La libertà artistica si risolve nei dettagli: dove il committente non mette l’occhio. In soldoni, ti pagano la Gioconda e tu, al netto dell’ironia, sei libero di ritrarre Ponte Buriano sullo sfondo; ti assume Giulio II e tu gli pianti il Monte Penna al centro della creazione.

Complice l’occhio del committente (vale a dire il palcoscenico pop), Franco Battiato è stato lasciato libero d’esprimere, a parole, la sua natura. Quanta musica è stata commerciata, al netto della parola? Quanti motivi anglofoni sono stati digeriti come incomprensibili e solfeggiati alla moda d’Un Americano a Roma (“auanagana”)? Un popolo, quello italiano, tanto esterofilo quanto linguisticamente imberbe, ha salutato “le grand hotel s-i-g-à-l- magìc” (NDR: un ibrido fra il Francese e l’Inglese scandito da un sordomuto) come una liberazione!

Non è colpa di Battiato, no di certo, ma l’Italia del reflusso era matura al punto giusto per accogliere un “cantautore” che non aveva la minima idea di cosa stesse dicendo. Così, ogni singola strofa de La Voce del Padrone è suonata, all’italiche orecchie, come la “supercazzola”. Vista l’esagerata ironia dell’LP, oso pensare che sia stata cercata e voluta: l’effetto di pubblico, comunque, è stato lo stesso del caustico Mascetti. Effetto dovuto se è vero, com’è vero, che l’ironia gioca sempre con l’ingenuità intellettiva: quella che sposta il dito sul tuo vicino mentre Alberto Sordi ti vede pronto a venderti un occhio e Paolo Villaggio ti sta dipingendo come Fantozzi.

Eppure Battiato è stato un “cantautore”: il cui impegno, attenzionando i testi, è stato siderale. Ne prenderò uno, ad esempio, che valga per tutti: valuterete voi le mie buone ragioni. Il brano, l’avete capito, è La Cura.

La lirica de La Cura poteva, a buon diritto, passare per una poesia Sufi: e magari, al lordo della mia ignoranza, lo è. Tutto l’amor cortese e, prima ancora, la tradizione troubadorica deve molto (tutto?) al Sufismo. La stessa Teresa d’Ávila, ed il suo successore Giovanni, non avrebbero potuto che esistere in Al-Andalus. Il misticismo musulmano, trasferitosi in Spagna e, da lì, in Provenza ha sempre concepito l’amore per Dio come esperienza dei sensi (“immanenza”, diremmo noi) e, come tale, l’ha sempre descritta. Giusto, quindi, scambiare il Nada te turbe (… nada te espante, solo Diòs basta) di Sicilia per una canzone d’amore: anche se, ovviamente, non lo è affatto. Poi, se ve la sentite di competere, amate in maniera “divina”: male non vi farà.

Chi parla, sulle corde di Battiato, è il Creatore: il creatore che si rivolge alla creatura. Se credete che il creatore sia una prerogativa d’Abramo, vi sbagliate di grosso; a me, ad esempio, piace pensarmi creatura di Prometeo ma ce ne sono per tutti i gusti: basta crederci. Il punto è un altro: è la dimensione della creatura. Pensarsi creatura o, che lo stesso vale, parte dell’Essere, significa con-dividerne l’essenza. Significa, in parole povere, assumere per sé una qualche “specialità”: piuttosto che l’invito informale ad un banchetto, entro il quale non è chiaro se facciamo parte del menù (Darwin). Per questo l’essere umano s’è inventato un creatore: perché qualcuno lo considerasse “speciale” (“perché sei un essere speciale ed io avrò cura di te”).

Orbene: ma dove è scritto che il rapporto reciproco fra la creatura ed il creatore sia la “cura”? È riportato da Igino nelle Fabulae ed è lì che lo trova Heidegger in Essere e Tempo. Prima di tutto capiamo cos’è la “cura”. La “cura” non è il farmaco, il rimedio, ma è l’accudimento: è il “prendersi cura” di qualcosa che, appunto, è eletto ad una dimensione di unicità (un figlio, un amante, un amico, un essere umano, etc.). “Speciale”, unico, perché qualcuno lo ha deciso; nella vacanza di Dio, toccherebbe a noi: per quell’adagio che sussurra “ateo, sì, ma stronzo, no”. Poi, lascio a voi decidere quanto possiamo aspirare a sostituirci al divino ma, in termini di specie, di essere o come la vogliate intendere, se vogliamo salvare l’umano o riesumiamo Dio o ci diamo molto, molto, da fare.

Fatto sta che, per Igino, l’umanità è stata creata da La Cura (intesa come divinità, al pari di Minerva intesa come intelligenza): e la cosa, l’avrete capito, non è scevra di conseguenze. Per una comprensione compiuta vi rimando ad Essere e Tempo ma, ed è questo il punto, potete apprezzarlo anche ascoltando le musiche ed il testo de La Cura di Franco Battiato. Come l’alba all’imbrunire, nel vertice più infimo in cui poteva finire la parola, è sorto un cantautore che ha avuto il coraggio di portare il ragionare fra le note.

Poi, se vi chiedete cosa c’entrino le aquile che attraversano l’oceano per attestarsi in Tennesse, lasciate perdere Heidegger. Franco Battiato, a detta sua, era capace di viaggi astrali dei quali, almeno io, non ho capacità: lui sì e ce l’ha voluto dire.

Affidarsi agl’altri è un notevole rischio ed una grande responsabilità. Con la sua arte, Franco Battiato, s’è affidato definitivamente a noi: cerchiamo di prenderci buona cura di lui. Se ha peccato, in qualche modo, perdoniamolo: nel 1992 è volato a Bagdad a portare la musica, invece delle bombe. Ha cantato la canzone che, di lui, preferisco. L’ha cantata in arabo ma voi la conoscete in italiano. È tratta dal Bardo Thodol, il c.d. libro dei morti tibetano: è L’Ombra della Luce.

Questo volevo dire.

 

Andrea Pancini
Andrea Pancini
Andrea Pancini è un pettegolezzo che qualcuno ha messo in giro. I ben informati sostengono si tratti d’uno scrittore, in concorso al Premio Campiello 2017. Sembra s’interessi a quello che la gente dimentica: vane speranze, amori desolati, eroi vigliacchi, dolori addominali e varia umanità. C’è chi dice che, prima, sia stato qualcos’altro ma che, d’allora, vaghi la notte al chiarore d’una sigaretta: sempre l’ultima. Ignorato dai più, di lui si sa poco se non l’eco di buone letture: Chanel, Versace, Armani. Ad oggi, si sussurra, viva spiaggiato sullo Stretto di Scilla.

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