L’Immigrante

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Karl Marx

A Dover, l’uomo più pericoloso d’Europa, si appresta allo sbarco sulla costa Britannica. Espulso dal paese natale e poi, in rapida successione, dalla Francia e dal Belgio, chiede asilo alla Gran Bretagna: l’Inghilterra liberale, ormai, è l’ultimo approdo possibile della sua presenza terrena. Trentun’anni alle spalle, due figlie ed una moglie, spesi senza farsi una posizione: la vita non mancherà di farglielo presente.

Nella bisaccia dell’esule, poche cose.

La fotografia del padre, quando la foto era un privilegio, che un agiato mercante si poteva permettere. All’esule ci vorranno trent’anni e l’eredità della moglie per fare lo stesso in memoria per la prole. Nella foto migliore è un vecchio bonario, canuto e bianco, che accenna un sorriso; in tutte le altre, come impone il protocollo Vittoriano d’un buon padre, appare austero: con quelle, in altri contesti, ci produrranno santini (Sic!).
Qualche libro, compagno d’ogni viaggio, scritto in lingua madre. Il Faust di Goethe, il Prometeo (incatenato) di Eschilo, qualcosa di Balzac e Floro, che si chiede (nel Bellorum Omnium Annorum) se quella contro Spartaco sia stata una guerra “civile”: combattuta da e contro uomini liberi. Una Bibbia Luterana, naturalmente, e qualcosa di Shakespeare per imparare l’Inglese. Tutto il resto lo troverà nella reader room del British Museum: Carroll, Dickens ed ancora Shakespeare.
L’indirizzo d’un amico al quale approdare; un ragazzo impegnato e ribelle, come lui: come lui finito in Inghilterra per far fortuna. L’amico dell’esule è un rampollo dell’industria tessile che si fa largo fra le maglie di Manchester. Cosa li unisce è la passione: l’unica ricetta valida d’una sana filia!

Chi sostiene la bisaccia è poco più d’un ragazzo: alto, robusto, dai capelli crespi e corvini. Per questo, i pochi amici, lo chiamano il “moro”. La vita del “moro”, esule in Inghilterra, non ha niente di singolare. Naturalmente non fa nessuna fortuna e la gioventù gli riserva, ancora, la sepoltura d’un figlio in erba. S’attarda in osteria e la vita non gli fa franca neppure la senilità, sebbene edulcorata dall’eredità della moglie: seppellisce tanto lei quanto la primogenita Jenny. L’inumazione, che l’attende ad Highgate, lo risparmia solo dei suicidi delle altre due figlie. Ma se questa è la vita, ben altro è il destino: il “moro” è stato la levatrice dei diseredati, usciti dai romanzi di Dickens.

I fantasmi di Dickens, per chi preferisce il cinema alla lettura, sono quelli delle passeggiate notturne di Mamma Roma: quelli che s’aggirano nella Metropoli. Per il guizzo dell’arte può bastare così ma, se s’intende “trasformare” il mondo, non basta interpretarlo: ci vuole visione. La visione del “moro” è quella di riconoscere, nella metropoli Londinese, la Roma Repubblicana. Nella Metropoli dell’antichità, chi veniva censito per la persona, senza disporre d’altri averi dalla cittadinanza, non rientrava in nessuna classe prevista dall’Ordinamento Centuriato ma, ciò non ostante, non veniva escluso dall’esercizio del potere. Segnatamente non veniva escluso dal potere giudiziario e legislativo esercitato dai Comizi Centuriati, ai quali veniva iscritto come “proletarius”: proletario.

La fortuna del termine è tale che, leggendo proletario, avete inteso chi era il “moro”: se fin qui non l’avete capito, si tratta di Karl Marx.

Oggi su Highgate svetta, neanche più di tanto, un piccolo mausoleo dove insisteva la tomba di Karl Marx. Sul marmo è incisa la glossa del Manifesto per ciò che non è mai stata: “workers of all lands, unite”. Forse è per questo che l’accento della sinistra anglofona si sposta, nell’ignoranza, sul tema del lavoro: a Marx, se valeva a provvedere per i bisogni, andava benissimo il vitalizio di Engels! L’originale autografo, in Tedesco, suona meglio: “Proletarier aller Länder, vereinigt euch!”. Anche in una lingua ostile, il termine proletari è facilmente riconoscibile: in effetti suona così in tutte le lingue Europee, compreso l’Inglese (“proletarians”). Solo un altro termine ha la stessa potenza; che ci crediate o meno, questo è il vino: quella cosa con cui s’imbandisce la messa. La forza letteraria di Karl Marx si misura in questo.

Il mondo è cambiato, com’è giusto che sia, ed oggi il proletario coincide col villanus: il campagnolo incivile mal tradotto in “villico” (termine innocuo) ovvero “villano” che, quest’ultimo almeno, conserva una certa forza evocativa. Cittadino, per come la vedeva Marx, sembra sia tornato a suonar bene e così sia. In fondo, Marx, non usava “cittadino” per non fraintendere i diritti civili con il censo: ai tempi di Marx, l’elettorato passivo, spettava ai possidenti e non potevano esser donne.

Per il resto vale per Marx ciò che vale per Cesare: “il male che l’uomo fa, vive oltre di lui. Il bene, sovente, rimane sepolto con le sue ossa. E sia così di Cesare” (Shakespeare). Ma, visto che siamo a sepoltura, lasciamo a chi lo conosceva bene il giusto epitaffio. Friedrich Engels ebbe a dire, un giorno uggioso di Marzo, che aveva “cessato di pensare la più grande mente dell’epoca” sua: che, comunque, non è la nostra. Lo diceva a quattro gatti (NDR: Stephen Jay Gould, che sull’argomento ha scritto un saggio, fissa le presenze a nove) nel settore dei “dannati” del cimitero di Highgate. Poi aggiungeva qualcosa di così banale, che agli epigoni del Socialismo dev’essere sfuggito: “Marx ha scoperto la legge dello sviluppo della storia umana e cioè il fatto elementare, finora nascosto sotto l’orpello ideologico, che gli uomini devono innanzi tutto mangiare, bere, avere un tetto e vestirsi prima di occuparsi di politica, di scienza, d’arte, di religione”.

Karl Marx è nato a Trier, duecento anni fa: valeva la pena ricordarlo.

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