Lo strano caso di Philip Marlowe

Le parole sono gli spiccioli dell’esistenza. Cosa conta, dell’apparato vocale, è la mascella: quadrata, robusta, a prova di pugno. Nell’ufficio d’un detective può entrare di tutto: quando esce, ti deve trovare ancora in piedi. Fuori è anche peggio; soprattutto se t’hanno appiccicato il nome d’un damerino: un drammaturgo o giù di lì. Poi ti guardano e si capisce che non ti chiami Cristopher.

Là fuori insiste la Città degli Angeli: un posto che non ha dato i natali a nessuno ed allungato il sonno a molti. Sono arrivati a grappoli, con la grande recessione, e sono arrivati saturi di furore: quel miscuglio di rabbia e speranza che spiana la strada all’intossicazione da piombo. Los Angeles non li ha, certo, risparmiati: se ti sparano addosso, c’è sempre una buona ragione. Il mio mestiere, quando non si tratta di fare la posta ad una moglie fedifraga od una figlia in fuga, è proprio questo: dar conto delle buone ragioni per l’eterno riposo.

Alla gente piace così. Hai mancato il battesimo, non t’hanno invitato al matrimonio per cui, alla dipartita d’uno sconosciuto, non puoi mancare. È l’incidente mortale che rallenta la fila di macchine, perché tutti vogliono vedere com’è fatta la morte che, per quella volta, li ha risparmiati. Io, questa curiosità, me la sono levata da tempo ma scriverne manda in visibilio la gente. Se non fosse per l’urina e la merda, sarebbero tutti aspiranti becchini. Morire è nella natura delle cose; siamo qui per questo, ma io me ne occupo professionalmente: a volte provocandola. Cerco di non farmi male e, se posso, di non far male a nessuno ma resto, comunque, un peccatore. Non giro a sparacchiare la gente, questo no: manco solo di risparmiargli la vita. Le mie pallottole, com’è di regola, sono sempre meritate: anche perché nessuno se n’è mai lamentato. Quando toccherà a me, cercherò di fare lo stesso: ché non vado matto per la lagna. Sono vivo per le mie buone abitudini; la tariffa salariale più le spese: per lo più benzina e bourbon. Non m’impegno nella corsa all’oro ed è questo che mi mantiene in salute. Non ho mai ricattato nessuno, né ho mai preso le mazzette di Mickey Cohen, ai tempi del dipartimento: la cosa, comunque, non m’ha risparmiato il licenziamento.

Al dipartimento di polizia ho imparato, comunque, due cose. La prima è che, per risolvere un caso, non c’è bisogno di fottuti geni. La seconda è che non frega niente a nessuno. Solo uno sprovveduto, che non alza mai gl’occhi al cielo, può pensare che sotto la scritta sulla collina (“Hollywood Land”) possa insistere una qualche verità. Le cose s’aggiustano, s’insabbiano, si omettono ma, di sicuro, non si scoprono. Pensi di dover cercare la ragazza di Moose, di scoprire chi ricatta le figlie del giudice o vuoi, semplicemente, dare una mano ad un amico, e le cose ti mettono in mezzo. Ne esci a stento e dai una sistemata ai cocci, alla meno peggio; apri una bottiglia, accendi una sigaretta e spengi la luce: altro non si può fare.

Magari, se fossi inglese, m’avrebbero propinato Sherlock Holmes: “elementare, Watson!”. Scotland Yard indaga, s’impegna e poi getta la spugna: un caso serio presuppone un gran dottore. Così arriva lui, detective per sport, che rimuove chirurgicamente il tumore: quello che, a tutti, sembrava incurabile. Il paziente è guarito, la scienza forense ha trionfato e la società può stare tranquilla: balle! Nel gioco della prossimità, non si può prendere le distanze dall’indesiderabile quanto sostare, troppo a lungo, nei pressi del dilettevole. In altre parole: per tener pulita la sala da pranzo, bisogna adibire a cesso un’altra stanza. Poi, di tanto in tanto, qualcuno deve dare una ramazzata: chi può, paga qualcuno. Ecco: io sono quello che pulisce i cessi della gente per bene. Se così non fosse, non mi lascerebbero entrare in casa.

Il mio segreto, in fondo, è tutto qui: narrare la miseria dei ricchi. Guardarli esattamente come farebbe la donna delle pulizie: dal buco della serratura. Un punto di vista che non va per il sottile, né cura i dettagli. Un acquarello su tela o, se preferite, una ramazzata superficiale alla stanza: lì un po’ di colore, qui un po’ meno; là un po’’ di pulito, qui niente. È la letteratura americana, signori, è l’hard boiled.

Lo stracotto (“hard boiled”) è l’unico genere letterario inventato in America: degli Americani, dagli Americani e per gli Americani. Quelli con la maiuscola ché, gli “americani” con la minuscola, si sono nascosti dietro il realismo magico: bontà loro. La ricetta dello “stracotto” è quanto ci vuole per coltivare una sana paranoia. Il genere più prossimo all’hard boiled è il noir: quello, per intendersi, in cui va in scena il dramma psicologico d’un individuo. Il tizio sclera, svalvola, s’intorta e trasforma la propria sociopatia in crimine. Nell’hard boiled è l’esatto contrario. Il fondo dello stracotto è una società corrotta che ha istituzionalizzato il crimine: presente escluso, ovviamente.

Inutile girarci intorno; io sono l’eroe esclusivo delle mie storie quanto, per altro, tutti lo sono delle proprie: solo che io le so raccontare. La mia dimensione eroica, poi, si risolve nell’umana durezza del perdente: resistente a tutto tranne il fato. Se avessi studiato in qualche vecchio istituto londinese saprei risolvermi in pochi spiccioli: io sono Ettore, mortale ed incorruttibile. Ma come pretendere l’Iliade nel sottopasso fumoso d’una highway? Los Angeles è la prima città costruita per il traffico, con le automobili che passano sopra la testa della gente: quelle al sole e questa nell’ombra. Se pensi di dar conto di Ettore, alla brava gente viene in mente la prima base dei Red Sox. Il paragrafo “eroi”, in questa nazione, comincia per “Di” e finisce con “maggio”. Anche il mio cinismo si ferma d’avanti a Joltin’ Joe: l’unica cosa bella che ti possa capitare, qui, è un fuoricampo.

Il mio rapporto con le donne si riduce alla masticazione: una buona mascella serve anche a questo. Se c’è un posto, dove il cinismo lavora come la soda caustica, è il belletto delle donne. Le femmine sono come l’alcohol; il primo sorso è magico, il secondo è intimo ed il terzo è routine: dopo di che, spogli la donna e basta. Per come la vedo io, il denaro non può comprare l’amore: ma migliora molto la tua posizione contrattuale. Forse è per questo che, dopo il primo giro, scappano come cornacchie: il secondo, con me, tocca pagarlo a loro. Di solito le preferisco sotto la luce di un bar, dov’è ancora lecito aspettarsi qualcosa; poi sono tutte graziose bambinette andate molto, ma molto, a male: senza che nessuno abbia mai fatto qualcosa per impedirlo. Magari, semplicemente, non si può.

Messa giù così, nel mio caso non c’è niente d’insolito. Sono maschio più di Hemingway, duro come la sella d’un cowboy. Rompo nasi come Braccio di Ferro e sono più puritano di tutto l’equipaggio del Mayflower. Amo il baseball e sono scafato come le lucciole fra la Quinta e la Broadway. Magari, a Los Angeles, ci sono finito in rotta dall’est ma ho il culo a stelle e strisce. Se non mi credete, cercatemi in biblioteca: mi chiamo Philip Marlowe e mi trovate all’indice della letteratura Americana.

Ma non m’avete mai sentito parlare.

La mia voce è addolcita dall’alcohol ma striscia sulle parole come Elizabeth the second. Sono inglese: cresciuto al Dulwich College, nel sud di Londra. Ho combattuto la Grande Guerra per la Corona e poi sono andato in esilio da un mondo che credevo d’amare. Un mondo che m’ha dato i natali, battezzandomi come Cristopher Marlowe, e col quale mi sono sempre specchiato: sono il rovescio di Sherlock Holmes. Un mondo ch’ha cominciato ad amarmi dopo che l’avevo lasciato: che mi ha capito quando gli Yankees m’hanno gettato nella spazzatura. Sono un immigrato: un immigrato di successo. Non è stato facile ma, adesso, sono un milionario. Sono stato spazzato via dalla recessione ed incupito dal lutto, nei miei anni sulla east coast: poi sono approdato ad Hollywood in cerca di fortuna. Ne ho avuta molta e chi conosce i miei romanzi lo sa: a Marlowe che indaga, capita sempre un colpo di fortuna. Ovviamente sono tutt’altro ch’illetterato e modellarmi su Ettore, paladino di giustizia, è stato facile.

A ragion del vero non mi chiamo neppure Philip: ma voi lo lascereste indagare uno che si chiama Raimondo? Ora che, confessando, ho chiuso anche il mio caso, lasciate che mi presenti come deve un suddito di Sua Maestà Britannica: …

My name is Raymond, Raymond Chandler.

 

Andrea Pancini
Andrea Pancini
Andrea Pancini è un pettegolezzo che qualcuno ha messo in giro. I ben informati sostengono si tratti d’uno scrittore, in concorso al Premio Campiello 2017. Sembra s’interessi a quello che la gente dimentica: vane speranze, amori desolati, eroi vigliacchi, dolori addominali e varia umanità. C’è chi dice che, prima, sia stato qualcos’altro ma che, d’allora, vaghi la notte al chiarore d’una sigaretta: sempre l’ultima. Ignorato dai più, di lui si sa poco se non l’eco di buone letture: Chanel, Versace, Armani. Ad oggi, si sussurra, viva spiaggiato sullo Stretto di Scilla.

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