Quella pazza, pazza, estate

Correva l’anno 1816, d’un luglio poco soleggiato. Per questo, il 1816, è passato alla storia come “l’anno senza estate”, dei più abbienti, ovvero “l’anno della miseria”, per i poveretti.

Ignaro della conclusione dei lavori al congresso di Vienna ed al riparo da occhi indiscreti, il vulcano Tombora, residente nell’isola di Sumbawa in Indonesia, si decise a ridurre drasticamente la propria altezza: passando da 4.300 metri ad appena 2.800 metri. I metri di troppo, ridotti a massa dalla pressione magmatica, furono polverizzati nell’atmosfera dal 5 al 15 aprile del 1815. Nella primavera del 1816, le ceneri del Tombora, avevano già obnubilato la primavera dell’emisfero boreale: rovinando, irrimediabilmente, tanto i raccolti che le vacanze estive.

Anche allora, come ora, un evento catastrofico di magnitudine globale (al pari d’una pandemia o di una guerra) impattò la stratificazione sociale in maniera assai diversa. Per le classi meno agiate, l’estate del 1816 si risolse in una carestia di proporzioni bibliche; l’ultima, in Europa, a lasciare sul selciato i “morti di fame”: senza bisogno di licenza letteraria. In altri paraggi, l’eruzione del Tombora si risolse in un mare di noia; da smaltire in qualche località di villeggiatura: Ascona, magari, Sils Maria, perché no, oppure sul Lago di Ginevra. Sir George Gordon Noel Byron, meglio noto come Lord Byron, si decise per Ginevra: non essendo né Otto Gross né Friedrich Nietzsche.

Come prescrive l’etichetta, alla volta di Villa Diodati, Lord Byron portò con sé un largo seguito. C’era Percy (Bysshe) Shelley, l’amico, Claire Clairmont, l’amante occasionale, John William Polidori, il medico personale, e tutta la servitù. Per evitare all’amico il rigore notturno, Lord Byron aveva pregato l’amante di portare rinforzi: lei aveva scelto la step sister (NDR: sorellastra è un dispregiativo insopportabile della mia lingua madre, poco prona ai divorzi), tale Mary Wollstonecraft Godwin. L’idea, cara a Byron, era di mettere in scena l’”amore libero”.

La ricetta dell’amore libero è presto detta: mescolare, in parti uguali, uomini e donne; aggiungere dell’assenzio e spruzzare tutto col laudano. L’amore libero è un tonico eccezionale: da consumarsi, preferibilmente, accompagnato ad intelligenze vivaci. Ottimo digestivo, l’amore libero è particolarmente apprezzato, dagli uomini, come coadiuvante del sonno mentre, le donne, ne decantano l’azione corroborante. Buono per tutte le occasioni, l’amore libero è ottimo all’aperto: nei campi od in riva a laghi e ruscelli. Se gradite fumare, l’amore libero si sposa divinamente col tabacco da pipa. L’unica contro indicazione dell’amore libero è portarsi dietro il medico personale: soprattutto se, il brutto tempo, non consente l’attività all’aperto.

L’estate del 1816 fu la peggiore a memoria d’uomo e John William Polidori, forse, il medico più oltranzista della storia. Fatto sta che, alla vista dell’amore libero, il timido dottor Polidori partorì uno dei personaggi letterari più fecondi di sempre: quasi come Cristo, meglio di Don Giovanni e più famoso di Faust. Polidori, guardando Byron, concepì The Vampire: il vampiro.

Prima di Polidori, i vampiri erano dei personaggi rozzi, simili a degli zombie, che popolavano il folklore dell’est europeo: un modo, come un altro, per spedire i bambini a letto. Con Polidori, invece, il vampiro diventa affascinante, ricco, colto, intelligente, di bell’aspetto e ben vestito: con il deprecabile vizio di mordere il collo alle fanciulle. Polidori non poteva più di 15 pagine ma tanto è bastato a denunciare Byron, e con lui la libertà d’amare, al mondo. L’intenzione manifesta di Polidori era quella del monito, alle fanciulle da matrimonio, di stare alla larga da Lord Ruthven (l’alias di Byron nel racconto di Polidori): l’effetto, ovviamente, è stato l’esatto contrario. Complici degli scrittori veri (quali Bram Stoker), occorre ammetterlo, ma che il sublime dell’amore sia rappresentato dal vampiro è, ormai, territorio dell’ovvio. Ciò non di meno, girano ancora dei polli ch’invitano le donzelle a dirigersi verso le scatolette di tonno: raccontando storie di “vampiri emotivi” con le stesse intenzioni moralizzatrici di Polidori. L’effetto, naturalmente, è lo stesso: per il fatto ovvio che il sublime, se Dio vuole, è soverchiante.

O così, almeno, ci ha raccontato Mary Wollstonecraft Godwin.

Mary Wollstonecraft Godwin, ve lo ricorderete, era il “rinforzo” dell’amante di Byron: chiamata a Ginevra per dare una mano, soprattutto a Shelley. A differenza di Polidori, convocato per più meschine faccende, Mary Wollstonecraft Godwin si trovava a Villa Diodati per animare l’idea d’amore di Byron. In effetti, Mary Wollstonecraft Godwin girava con Shelley da un paio d’anni: preda, a detta sua, d’una “ardente passione”. Tanto presente e viva da farle varcare la soglia dei costumi quanto della buona creanza. Nell’accezione di Mary Wollstonecraft Godwin, il libero amore era da intendersi come l’amare un uomo impegnato: Percy Bysshe Shelley era sposato con la signora Shelley che, ahimè, non era lei.

Di più! Quella che doveva essere una vacanza, complici le avverse condizioni metereologiche, si stava risolvendo in un lockdown sulle colline di Fiesole. Al Polidori, l’avete capito, la clausura forzata aveva dato alla testa: forse perché non s’era portato una copertina, ovvero non partecipava il libero amore. A Mary Wollstonecraft Godwin, invece, la presenza della sorella, di Percy Shelley e di Lord Byron, aveva animato l’esistenza. Scrivere, per i praticanti, significa offrire, ad una cerchia colta ed intelligente, un divertissement dalle noie e dagl’inconvenienti della vita. Non importa chiamarsi Shelley o Byron: a volte basta chiamarsi Polidori o Godwin.

C’è qualcosa di sublime, nella sospensione della vita, ch’alimenta l’esistenza: qualcosa che, sovente, prende forma nell’inchiostro. Da un’estate burrascosa e fredda, ad esempio, è nato il vampiro come noi lo conosciamo (ed amiamo): al di là dell’intenzione. Una sorta di “cura Decameron”, come l’intendo io, entro la quale l’assenza di vita non fa che rievocarla: come la boccata d’ossigeno dopo una lunga apnea. Come una cura omeopatica che, se in biologia sicuramente non funziona, evidentemente fa bene allo spirito. Così una diciottenne colta, intelligente e libera, ha pensato un Prometeo non convenzionale entro un’estate che non è mai accaduta: persa fra la coda e l’incombenza dell’inverno, nel 1816.

Una tenera amante, in fondo, che dall’amato pretendeva il riconoscimento, l’identità e l’amore. Per sé che, con Percy Shelley, condivideva la passione letteraria, le speranze, la rabbia, la vergogna ed il peccato: ma non la fede. Poi, complice il caso, otterrà anche quella. Un anno prima di Polidori, darà alle stampe la propria Creatura in forma anonima: ci vorrà il successo letterario per aggiungere all’opera il proprio nome. Si firmerà Mary Shelley, mutuando il cognome dal marito. Qualcosa che, nella pazza estate del 1816, le sembrava impossibile: …

quanto che, Viktor Frankenstein, convolasse a nozze con la propria Creatura!

Andrea Pancini
Andrea Pancini
Andrea Pancini è un pettegolezzo che qualcuno ha messo in giro. I ben informati sostengono si tratti d’uno scrittore, in concorso al Premio Campiello 2017. Sembra s’interessi a quello che la gente dimentica: vane speranze, amori desolati, eroi vigliacchi, dolori addominali e varia umanità. C’è chi dice che, prima, sia stato qualcos’altro ma che, d’allora, vaghi la notte al chiarore d’una sigaretta: sempre l’ultima. Ignorato dai più, di lui si sa poco se non l’eco di buone letture: Chanel, Versace, Armani. Ad oggi, si sussurra, viva spiaggiato sullo Stretto di Scilla.

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