Una e trina: il racconto semiserio di un’insegnante ai tempi del Covid

Di Federica Cenni

Una e trina, ho scritto, anche se in realtà mi sento le tre Grazie in una, senza però grazia alcuna.  Provate per un attimo a pensare di essere genitore, docente e vicepreside nello stesso Istituto, in questo periodo, essendo dotata della dinamicità di un bradipo e della socievolezza di un paguro eremita. Mica facile, garantisco. Eppure, ad ogni “Come va?” rispondo “Finché si va a scuola, bene”. Lo penso davvero. Sono entrata nella scuola pubblica nel 1982, a 6 anni, e ancora non ho trovato la porta per uscire. La scuola è il mio mondo, la mia comfort zonenon portatemela via.

Sono insegnante di Matematica e Scienze alla Secondaria di Poppi… i miei alunni di prima non mi hanno mai vista senza mascherina. Ho dovuto imparare a sorridere con gli occhi, io che sorrido tanto, convinta assolutamente che un ambiente di apprendimento allegro e sereno sia un ambiente di apprendimento efficace. Io che credo nella didattica laboratoriale, mi sono dovuta reinventare completamente. Eppure, finché si va a scuola, va bene. Va bene che i miei ragazzi siedano sui trabiccoli a rotelle, va bene la finestra spalancata alle spalle, va bene il gel… va bene tutto, se ci sono loro. Sono meravigliosi, responsabili e maturi molto più di tanti adulti, eppure così, ostinatamente, bambini. Occhi limpidi dove leggi ogni emozione, da sopra la mascherina, mentre alzano le loro mani accuratamente sanificate. Il contatto umano, anche in epoca di distanziamento sociale, è fondamentale. Si fa contatto emotivo, a passare sono le emozioni. In didattica a distanza no. Non passano. Sono solo le nozioni che vengono trasmesse. Ho provato di tutto, mi sono messa in discussione e reinventata, lo scorso anno, ho molti più strumenti e competenze di marzo… eppure trovo la DAD un triste palliativo, soprattutto per i più piccoli. Può essere fatta benissimo, ma la relazione docente/discente, fondamentale nel primo ciclo, si perde. Siamo come youtuber, però più noiosi. Che barba, che noia. Che amarezza.

Se poi mi metto nei panni del genitore, mio figlio frequenta la Primaria, la DAD mi spaventa ancora di più. La maestra (la “mae”), anche se non ti può scompigliare i capelli o dare un buffetto con la mano, riesce a farlo con la voce, con lo sguardo. Ha un profumo che lo riconosci subito, la maestra, sa di buono, di gomma da cancellare e di gesso. Profuma di scuola (e ora anche un po’ di gel idroalcolico). Quel profumo dal lontano non lo senti, non lo sai se il suo sguardo, severo, ammonitore, bonario, indulgente, è per te o per un altro dei quadratini sullo schermo. La DAD, da genitore, per un figlio, se va bene è meglio di niente… a volte è peggio. E ora tutto è tecnologico: registro elettronico, piattaforme. Colloqui su Meet, compiti su Classroom… e quella rompiscatole della vicepreside che pubblica circolari a raffica in bacheca… con la spunta per la presa visione.

Ah, già… la vicepreside sono io. Io che ho le doti diplomatiche di un caterpillar (l’autoarticolato, non il bruchetto), io che nel rapporto coi miei pari mi accartoccio su me stessa come un porcellino di terra. Io che sono famosa per la pazienza in classe, e fuori passo da zero a iena in un attimo. Eppure, anche lì, mi sono reinventata, impegnata con tutte le forze… perché serviva che lo facessi. Quando devi a una scuola quello che io devo all’I.C. Poppi, per me, per mio figlio, il sacrificio non è neppure un sacrificio. Ci sono le necessità dei docenti, ci sono quelle dei genitori, e a volte sembrano collidere. Ma siamo parti dello stesso progetto, dobbiamo puntare sull’alleanza educativa, per il bene dei nostri ragazzi. Rispettare le regole e farle rispettare… perché, in fondo, finché si va a scuola, va tutto bene.

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