Ultimatum all’Italia

Washington D.C., 1951 dell’Era Volgare. Un disco volante atterra in un parco della capitale e Klaatu, un extraterrestre come un altro, si presenta all’umanità: “se non provvedete immediatamente il disarmo nucleare, ci pensiamo noi a colpi di laser”. Noi, naturalmente, include Gort: l’imponente robot armato fino ai denti.

Il cuore caldo di Farewell to the Master, da cui è tratto Ultimatum alla Terra, è il rapporto fra la tecnica (il robot) e l’uomo (extraterrestre) in carne ed ossa: con foschi presagi sulla tenuta di quest’ultimo. Nel film, invece, al suono d’un improbabile comando (Klaatu, Barada, Nikto!) il robot si umanizza: resuscita il “padrone” morto, evita la rappresaglia agli umani e riprende la via del cielo. Se vi sembra la rivisitazione della Parusia (NDR: alla lettera “visita ufficiale”, nella vulgata cristiana meglio nota come “rivelazione”) avete colto nel segno; con annesse questioni che si reverberano nell’oggi: “io sono pronto?”, “io come reagirò?”.

Posto che “pronti” non lo si è mai, se non nel contesto delle pie illusioni, sulle probabili reazioni viene in soccorso la vita degli altri: nessuno è mai il primo che s’affaccia sull’inatteso.

Quando capita a me, mi viene in mente un remoto pescatore della Baia di Edo: che prende la via del mare sul suo giunco, sospinto dall’olio di gomito. Una mattina di luglio, nel 1853, intravede sull’orizzonte un fuoco a mare. Me lo figuro intento a remare verso i naufraghi ed essere raggiunto, ben prima che i suoi muscoli si portino al largo della baia, dalle torri di fumo. Immagino la sorpresa. La colonna di fumo non è una nave shuinsen andata a fuoco ma i piroscafi a vapore del Commodoro Perry: navi da guerra americane in “missione diplomatica”. M’immagino lo sconcerto del pescatore ed il senso di profonda inadeguatezza che accompagna l’uomo, nel suo viaggio attraverso l’immanente: “non avevo la minima idea!”.

Di converso, è difficile immaginare che lo Shōgun, l’Imperatore Meiji, i daimyō ed i ricchi mercanti di Nagasaki, non s’aspettassero che l’isolamento del Giappone, voluto da Tokugawa secoli prima, sarebbe venuto meno: un giorno o l’altro. L’editto Sakoku, datato 1633, aveva bandito gli stranieri dal suolo giapponese: salvando l’impero dalla fine riservata alla Cina ma ad un prezzo salatissimo. Niente oppio, in Giappone, nessuna ingerenza straniera né chincaglieria occidentale; chiuso al progresso, il Giappone era sopravvissuto: ma come residuato bellico. Se così non fosse stato, il nostro pescatore sperduto nella Baia di Edo, quel luglio del 1853, avrebbe capito che non c’era nessun bisogno di salvare … un piroscafo!

Mettere un intero popolo in formalina, nel 1633, può essere sembrata una buona idea ma la ragione insegna che non lo è mai: mai e poi mai! Così, ad esempio, è successo oltre la Cortina di Ferro ed i risultati sono stati notevoli; fra questi, molti premi letterari (Bulgakov, Pasternak, Solzenicyn e Kundera) e qualche oscar (Kusturica), come uniche note positive: il resto è stato disastroso. Inutile precisare che, anche l’Italia, è in formalina da almeno trent’anni; pochi rispetto ai duecento giapponesi ed ai settanta sovietici ma altrettanto “meritori”: per altro, in Italia, non è ancora dato di traguardare l’alba.

Comunque.

L’ultimatum americano, affinché il Giappone si aprisse al commercio internazionale, finì con la Convenzione di Kanagawa: con la quale, il paese del sol levante, accettava ogni richiesta imperialista. Firmatario della Convenzione, il quindicesimo successore Tokugawa: “gran signore” (in Giapponese, Tikun, da cui l’inglesismo tycoon riferito … ad un illustre “mercante”) ma non imperatore (in Giapponese Tennō, “signore celeste”). La cosa, come vedrete, non mancherà di rivelarsi interessante.

La Parusia del signore americano, che se è “padrone” non per forza dev’essere bonario, aveva rivelato l’inadeguatezza del Giappone feudale al Tempo (NDR: l’unico Dio sublunare, per cui l’unico Dio). In termini biblici, sicuramente a voi più comprensibili, i piroscafi del Commodoro Perry suonarono, alle orecchie dei giapponesi, come il Dio di Giobbe: Dov’eri, tu?. Resta pacifico che tutti, in Giappone, erano altrove quando il Signore fondava la terra, fissandone le dimensioni e la giusta misura. “Altrove”, ovviamente, è da intendersi come l’affaccendarsi in qualcos’altro: il nostro pescatore sui remi, mentre lo Shōgun indicava la rotta. Tutti, invariabilmente, assopiti entro una visione inadeguata: scusabile per il pescatore; ingiustificabile per la classe dirigente che, immancabilmente, venne giù. Non già attraverso un moto rivoluzionario, un cambio di paradigma, ma con una restaurazione progressista: chiusura totale al liberismo (ai “valori” d’Occidente) ed apertura massima alla tecnica (Occidentale).

Per capire la cosa, torniamo ad Ultimatum alla Terra e chiediamo, lì, un soccorso visivo. All’epifania di Klaatu, con la sua richiesta di pace, e di Gort, con le sue buone ragioni armate, i giapponesi pensarono bene di non deporre le armi atomiche ma di aggiornarle al laser! Così, magari, quando Klaatu tornava a chieder conto, gli avrebbero sparato addosso tutto quello che avevano! In poche parole, i giapponesi scambiarono la Rivelazione, la Parusia (l’incarnazione dell’ideale nell’immanente), per l’Apocalisse e di conseguenza reagirono: sentendo minacciata l’esistenza. In effetti è dato ragionare anche così.

Il Giappone moderno nasceva in questo modo peculiare: entro una visione millenarista, direbbe un cristiano. Il sistema feudale, retto dallo Shōgun dai daimyō e dai bushi (samurai), si era rivelato inadeguato alla prova dei fatti; disonorando il signore del cielo, il “signore celeste”: l’Imperatore del Giappone! Chiamati ad operare su un piano morale e fedeli al giuramento prestato, al grido di “onora l’Imperatore” (Sonno Jöi), i samurai (i bushi) si tagliarono il codino: l’equivalente di un suicidio rituale (suppuru, ovvero “karakiri”). Tagliarsi il codino, è bene che l’intendiate, significava rinunciare ai privilegi riservati ai samurai: nell’ottica di far decadere ogni altro privilegio “di classe” in nome di Dio (il Tennō), della Patria (il Giappone) e della Famiglia (le generazioni di giapponesi a venire).

I fatti, nelle pagine di storia, sono noti come Era Illuminata Meiji e, qualunque cosa ne pensiate, è stato un fatto rilevante. Di solito, alla Parusia del Tempo che passa, i movimenti conservatori si curano di mantenere i privilegi: più spesso con le unghie e con i denti. In Giappone, durante l’Era Meiji, è successo qualcosa di profondamente diverso: la PALINGENESI SOCIALE. Tagliato il codino ai samurai, il Giappone dell’anno zero si è ri-generato (Palingenesi, dal Greco pálin, “di nuovo”, e génesis, “generazione”) attraverso la modernizzazione. Il Giappone si mette a produrre acciaio, adotta il codice civile tedesco, implementa un esercito basato sulla coscrizione, esporta oro e perle, inizia la tassazione e la burocrazia che ne consegue, fonda la sua banca centrale e si avvia all’accumulazione capitalistica: naturalmente comincia lo sfruttamento della manodopera a basso costo, sradicata dalle campagne (il C.D. “proletariato”). Il Giappone si disegna come uno Stato: nazionalista, fornito di una religione “di stato” (lo Shintoismo) ed imperialista. Nel 1905 si presenta alla Russia zarista ed entra, trionfalmente, nella storia mondiale: esattamente quello che, suo malgrado (vale a dire senza aver letto una riga di storia), intendeva vaticinare Matteo Renzi all’Arabia Saudita di Mohammed bin Salman, quando parlava di “nuovo rinascimento”.

Cerchiamo di vederci chiaro.

La Rivelazione, la Parusia, è un fatto rivoluzionario: qualcosa di unico che divide il Tempo in un “prima” (avanti Cristo) ed un “dopo” (dopo Cristo). Pensate all’avvento dell’amore nella vita d’un adolescente; è lo stesso Thaumàzein provato dal nostro pescatore affaccendato lungo le sponde di Edo: “non avevo la minima idea!”. Se non mi credete, cercate di spiegare l’amore terreno ad un bambino e vedrete cosa ne risulta: il bambino, immaturo (impreparato) per la Rivelazione, entra in uno stato di “latenza”. In soldoni traduce il Greco Thaumàzein con “trauma” e non “meraviglia”; la Rivelazione di una nuova esistenza, si traduce nell’Apocalisse della castrazione: la gioia di capire diventa uno shock!

Questo schema logico è vecchio quanto l’uomo ma in Occidente è ascrivibile ad Eraclito: “Il ruotare in-circolo su sé stesso del tempo e quindi il continuo ritornare dell’uguale, di tutti gli enti, nel tempo, è il modo in cui l’ente nel suo insieme è”. Capite bene che, l’eterno ritorno dell’uguale, presuppone che non esista nessuna novità: nessuna Rivelazione, nessun cambio di paradigma, nessun pensiero scientifico, nessun pensiero radicale … nessuna Rivoluzione! Nella versione originale, l’eterno ritorno, suona così: Genesis, Ecpirosis, Palingenesis. Voi, magari, la conoscete attraverso il romanzo di Stephen King: Carrie. Carrie è un’adolescente che s’affaccia alla vita adulta, accompagnata dalla visione inadeguata (sessuofoba) della madre. Debole nel senso di sé, derisa dai compagni, Carrie scatena l’Apocalisse. In effetti, invece di scatenare quattro cavalieri, Carrie dà fuoco ad ogni cosa: Ecpirosis, per l’appunto, significa “grande fuoco”.

Silenzio.

È lo stesso schema del millenarismo cristiano, entro il quale la Rivelazione è solo un avvertimento del “secondo avvento” che, attraverso l’apocalisse, rigenererà il mondo per altri mille anni: mille anni di Palingenesi; mille anni di III Reich. È lo stesso schema del jihadismo, tanto quanto della “restaurazione” iraniana o talebana: Islam, corruzione dei costumi, ritorno alla purezza originaria. È lo stesso schema di alcuni puristi cristiani: missa in Latinum (Tridentina), degenerazione della messa in Italiano, ritorno della missa in Latinum. È il credo di Putin: Impero Sovietico, vittoria Occidentale nella Guerra Fredda, ritorno dell’URSS. È il pensiero di Xi Jinping: Celeste Impero (Yang), invasioni barbariche (Yin), ritorno della luce in Cina. È stato il Risorgimento, di chi vaneggiava una teocrazia papalina nel futuro dell’Italia: quanto lo è stato il Fascismo che si specchiava nell’Italia, come culla della civiltà romana. Naturalmente è esattamente quanto è occorso in Giappone durante l’Era illuminata Meiji: tanto per farvi capire che ho studiato!

Eppure, non pago d’aver messo in mezzo un vecchio film (Ultimatum alla Terra del 1951), ho sentito il bisogno di citare Carrie, il romanzo di Stephen King. Magari perché spero che La Giorgia, che si è presentata alla Camera come La donna per antonomasia, sia emotivamente più stabile, ovvero infinitamente meno potente, di Carrie. Nel senso dell’equilibrio emotivo, la carrellata di Nilde, Oriana, Cristina, Rosalie, Alfonsina, Grazia, e Samantha per arrivare a La Giorgia è, per lo meno, disturbante: se non proprio disturbato. Per il resto, vale a dire che La Giorgia persegua uno schema palingenetico, è fuori da ogni dubbio. In scala planetaria è più preoccupante che la palingenesi sostenga Putin o Trump, che il “grande fuoco” (Ecpirosis) lo possono appiccare, ma, nel mio piccolo, anche La Giorgia può far molto male. Se non trovate chiarezza nell’archetipo (la Palingenesi), né conforto nella storia (l’Era illuminata Meiji), potete fare utile riferimento al Fascismo: ma sarebbe puerile.

Meglio, a questo punto, mettere le carte in tavola.

Nel 1994, ad un’Italia molto meno disperata di adesso, si presentò l’occasione di cambiare paradigma: contrastare la mafia, combattere la corruzione, cancellare dal vocabolario la provvidenza (l’ottimismo oltranzista che, temporibus illis, era il garofano rosso nella Milano da bere), pagare le tasse, essere più solidali, meno iniqui, qualunquisti e tutti i bravi difetti d’un passato, a tratti, imbarazzante. Si preferì altrimenti: ciò a dire lasciar fare, “non disturbare” si direbbe oggi, nella prospettiva di un “nuovo miracolo italiano”. Il miracolo italiano, ovviamente, ha fatto il pari con lo “scioglipancia” che Vanna Marchi proponeva su Rete A: con pedissequi benefici. Uno su tutti il congelamento definitivo di qualunque approccio radicale: primo su tutti con riguardo al debito pubblico. Dal possibile cambio di paradigma si è passati al torpore della c.d. “maggioranza silenziosa” che, nel 2013, ha subito un trauma.

Il trauma adolescenziale, di questi bambini invecchiati male, è stata la crisi del debito sovrano. Una crisi su cui ci sarebbe tanto da dire, come sull’apertura forzata del Giappone operata da una potenza straniera sulle ali dei piroscafi, ma che qui rileva in termini più spiccioli: è scattato un ultimatum all’Italia. Mentre i fautori del “nuovo miracolo italiano” vedevano le pizzerie trasudare clienti, entro una visione inadeguata, Francia e Germania si proponevano per il salvataggio dall’imminente default del paese. Default evitato ma, conseguentemente, messo in conto all’Italia che, grazie ad una classe dirigente di bancarottieri, è stato interamente scaricato sul popolo minuto. Tutto ciò che è seguito al governo Monti è stato l’equivalente della Convenzione di Kanagawa, firmata dallo Shōgun prima dell’Era Meiji. Ecco; nell’opinione dello scrivente, è stato questo il detonatore dell’Era “illuminata”, ovvero “pirotecnica”: allora come ora.

Persone che già si sentivano perse, entro un “miracolo” a cui non avevano partecipato, hanno concluso di non aver più nulla da perdere e, parimente, di non aver più nessuna voglia di star dietro alle profezie nefaste: come questa mia. Di cambiare prospettiva, neanche a parlarne. Oggi, distribuiti equamente fra maggioranza ed opposizione, queste persone, alle quali nessuno ha spiegato nulla (“ce lo chiede l’Europa”) e meno hanno capito, sono l’assoluta maggioranza del parlamento. Sentono che sta per succedere qualcosa di radicale: qualcosa che, se non succede, comporterà il collasso della nazione.

Non chiedete a La Giorgia che cosa sia: lei, per prima, non lo sa. Ma sa, per certo, che sarà lei a compierla. Viste le premesse, …

speriamo solo che si sbagli di grosso!

 

Andrea Pancini
Andrea Pancini
Andrea Pancini è un pettegolezzo che qualcuno ha messo in giro. I ben informati sostengono si tratti d’uno scrittore, in concorso al Premio Campiello 2017. Sembra s’interessi a quello che la gente dimentica: vane speranze, amori desolati, eroi vigliacchi, dolori addominali e varia umanità. C’è chi dice che, prima, sia stato qualcos’altro ma che, d’allora, vaghi la notte al chiarore d’una sigaretta: sempre l’ultima. Ignorato dai più, di lui si sa poco se non l’eco di buone letture: Chanel, Versace, Armani. Ad oggi, si sussurra, viva spiaggiato sullo Stretto di Scilla.

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