“Grazie Liliana”: a Rondine (AR) l’emozionante testimonianza della Senatrice scampata alla Shoah

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Dalla nostra inviata Rossana Farini

Il seme dell’ultima testimonianza pubblica di Liliana Segre a Rondine è casentinese. Più di venti anni fa Liliana Segre e Franco Vaccari – fondatore della Cittadella della Pace – si sono incontrati proprio a Camaldoli, dando inizio ad un’amicizia che ha portato la Senatrice a vita a lasciare la sua ultima testimonianza pubblica sull’Olocausto proprio ad Arezzo.

Quello che hanno vissuto venerdì mattina i giovani e le persone che si trovavano sotto il tendone di Rondine, è stata un’esperienza intensa, un momento di Storia, che nessuno dimenticherà. Liliana ha scelto questo luogo perché qui si trovano e studiano ragazzi che vengono da territori di conflitti e di guerre, per imparare la convivenza di pace. Una cittadella dell’utopia che è diventata realtà e che da oggi sarà anche cittadella della memoria.

Venerdì 9 ottobre 2020 è una data che rimarrà nella storia. In questo luogo dove la pace si costruisce su vite nuove, Liliana ha deciso di innestare un nuovo inizio e una nuova memoria, che da questo giorno non è più solo sua, ma di tutti i giovani ai quali ha lasciato in eredità una sorta di missione per il futuro.

A precedere Liliana, sono state le più alte cariche dello stato: dal Presidente Giuseppe Conte, a Roberto Fico Presidente della camera dei Deputati, a Maria Elisabetta Alberti Casellati Presidente del Senato i quali tuttavia, hanno lasciato un saluto e un ringraziamento, rispettando elegantemente i tempi e senza impattare con la loro presenza la testimonianza stessa. Lo stesso Conte ha voluto sottolineare il fatto di essere a Rondine per “ascoltare”. Solo a testimonianza conclusa, la Ministra Azzolina ha parlato del concorso per le scuole sulla memoria della Shoah.

Ho passato la mattinata immersa in parole ancora vive che nulla aveva intaccato, neppure il tempo che è passato e le tante volte che le stesse sono state pronunciate. Non credo ci possa essere un altro esempio di integrità intellettiva e di forza paragonabili a quelli di Liliana. Quando è iniziato il suo racconto il silenzio si è fatto culla, abbraccio per accogliere qualcosa che va custodito al caldo dentro di noi, per poi germogliare nel migliore dei modi e dei mondi possibili.

La testimonianza è iniziata con un concetto molto forte che è quello dell’alterità, della differenza. “Era un settembre del 1938 quando ho iniziato a sentirmi l’Altra”. Le leggi razziali, che Liliana ci ha invitato a rileggere con attenzione, sono state una ferita, una cesura importante nella nostra storia nazionale oltre che una vergogna, una macchia che solo il tempo ha coperto, ma mai cancellato del tutto. Lei bambina non è più Liliana ma “l’amica ebrea”, l’altra appunto, resa invisibile come tanti altri bambini che avevano l’unica colpa di essere considerati “diversi”. I quaranta giorni passati nel carcere di San Vittore a Milano, prima della partenza per Auschwitz sono i giorni in cui lei diventa la mamma di suo padre. Gli interrogatori ed i soprusi continui a cui era sottoposto giornalmente rendevano questo uomo piccolo e indifeso “e io diventavo vecchia”, ci ha raccontato Liliana. L’amore e la pena per questo genitore disperato, ci sono arrivati sotto la forma di una parola che ci ha lasciato sofferenti e indifesi a nostra volta.

605 persone partirono dal Binario 21 della Stazione Centrale di Milano… senza che nessuno se ne accorgesse. Solo i detenuti di San Vittore si dimostrarono “esseri umani veri” gettando dalle loro sbarre arance e sciarpe e qualche parole di sostegno. Solo i detenuti. A questo racconto la platea ha quasi abbassato la testa. Sì, proprio quei detenuti che noi solitamente lasciamo lontano dai nostri occhi e dalle nostre vite. Liliana dovrà attendere molto tempo per ritrovare degli “esseri umani” capaci di pietas e di empatia. Dal binario 21 in poi incontrerà solo “mostri”.

A caricarli sui vagoni merci come “bestie” non c’erano solo nazisti. Liliana fa una piccola pausa quasi impercettibile per prendere tutta l’attenzione di cui c’era bisogno. C’erano tantissimi italiani, tanti “vicini di casa”. La “sua Milano” sembra sparita. Oggi quel Binario 21 è un mausoleo della Shoah voluto dalla stessa Senatrice, ma per anni è rimasto lì, nascosto da una vergogna che ci ha tappato gli occhi e il cuore. I pianti di disperazione delle prime ore di viaggio si spengono all’improvviso per lasciare spazio solo alla solennità del momento che precede la dipartita. Il secchio in mezzo al vagone strabordava di ogni cosa che un essere umano terrorizzato può secernere e buttare fuori. Ma nessuno ruppe più quel silenzio. A febbraio del 1944 quel treno che era partito da Milano si fermò in un posto che solo oggi Liliana descrive con le stesse parole che Dante aveva utilizzato per descrivere i suoi gironi. Il suo sorriso da ragazzina diventata vecchia, accompagnò suo padre verso il nulla. Non si videro più.

75190 è un numero e niente più. Eppure Liliana dovette impararlo a memoria, anche in lingua tedesca se voleva sopravvivere. Quel numero era lei. E c’è ancora dentro di lei. Molte ragazze furono uccise con un colpo di pistola solo perché non avevano risposto quando veniva gridata in tedesco questa sequela di cifre. Dai capelli, ai vestiti, alle mutande fino al nome, il gioco era fatto, erano state private di tutto. Non più persone ma numeri, “eravamo dei dannati e condannati”.

“Quando hai paura che la vita ti venga tolta per un nonnulla, diventi come i tuoi aguzzini vogliono che tu sia”. Liliana rifiuterà per molto tempo dei legami. Perdere qualcuno che ami è una ferita che sanguina all’infinito. Nel lager nessuno era amico.

Liliana gira la testa verso la sua destra dove a terra sono seduti molti ragazzini. Rimane in silenzio per una manciata di secondi in cui una platea di 500 persone ha trattenuto il fiato. Forse c’era bisogno di una pausa per non rimanere dentro quel dolore. Ma la vita nell’inferno riserva angoli di qualcosa che è molto vicina all’umana comprensione, nonostante la disumanizzazione a cui queste ragazze e questi prigionieri erano sottoposti giorno, dopo giorno.

Liliana, ancora quattordicenne e salva per la sua statura che la faceva sembrare più grande della sua età, ha la fortuna di uscire ogni giorno dal lager per lavorare come schiava in una fabbrica di munizioni. Qui incontra una ragazza francese più grande di lei. E’ Janine. La ragazza perde due falangi in una pressa dell’industria di armi tedesca e nuda davanti al “piccolo tribunale” presieduto da Mengele, viene ritenuta ormai inutile alla causa del Reich e gettata nelle camere a gas e poi nel forno. Quel giorno Liliana, per il terrore in cui erano costrette a vivere, non avrà il coraggio di dirle nulla. Neppure di chiamarla col suo nome mentre si allontanava per compiere un destino di ingiustizia e sofferenza.

Janine diventerà il simbolo della testimonianza della Senatrice in tutto il mondo. Janine è la perdita di umanità, Janine è il senso di colpa, Janine è l’orrore che diventa carne. Rondine ha dedicato a lei uno spazio, un’Arena di speranza.

I nazisti si sentivano grandi, imbattibili, unici. Si sentivano parte di una razza superiore in tutto. Negli ultimi tempi prima della disfatta la loro azione si fece più dura e feroce. I prigionieri furono fatti partire a piedi per altre destinazioni. Una marcia della morte che fece più vittime del lager stesso.

E’ stato faticoso per noi, sotto quel tendone, comprendere completamente le parole di Liliana. L’orrore spinto fino a quei limiti è incomprensibile.  La descrizione del momento in cui lei con altre ragazzine, si butta in un letamaio per mangiare qualcosa è estrema, così come quella del cavallo morto che viene preso d’assalto con unghie e denti e della sensazione di quel pezzo di carne che faticosamente riesce ad ingoiare e la riporta alla vita. “Quel cavallo morto era meglio di noi”, ci ha detto. L’immagine finale del racconto è stata estrema, così come il cambiamento che ha innescato in lei portandola ad essere insieme testimone dell’orrore, costruttrice di pace e custode della memoria.

I tedeschi erano stati sconfitti. Il comandante dell’ultimo campo in cui erano stati internati, manda via violentemente il suo cane e si spoglia di tutto rimanendo in mutande. La pistola viene allontanata e Liliana la può raggiungere facilmente. “Non mi guardava neppure. Per lui non esistevamo come esseri umani”. In un attimo crede di sapere come concludere tutta quella pazzia: prendere la pistola e sparare a quel criminale. “Mi sembrò per un attimo l’unica cosa giusta da fare, un giusto finale”. Nello stesso istante però qualcosa la fermò. “Non volevo diventare come lui. Da quel momento sono stata una donna libera e di pace”.

La platea di Rondine ha applaudito per più di un minuto in mezzo, per poi dover finire su richiesta della stessa Senatrice.

Abbiamo raccolto la sua commozione come un dono e la sua ultima testimonianza pubblica come una missione di cui ci faremo portatori in famiglia come nella società. Purtroppo di correnti sotterranee e meno sotterranee che si ispirano alla ideologia nazista ce ne sono tante. Questa memoria non va abbandonata o trascurata o considerata inutile. Per i nostri figli sarà, al contrario, un esercizio necessario se vorranno vivere in un mondo giusto per il quale “gli altri” siamo noi stessi.

Grazie Liliana

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