Lasciando trascorrere i giorni, fa che l’acqua mi trattenga

Non è cosa da poco finire al MOMA di New York. Se, poi, si tratta di un videoclip musicale è piuttosto insolito.

È stato questo il destino di Once in a Lifetime (“una volta nella vita”), brano dei Talking Heads: musica d’un tempo indecifrabile, testo ispirato al delirio nietzschiano ed immagini dettate dal movimento sconclusionato d’un compulsivo. Gli anni ’80 non avrebbero potuto aprirsi meglio e, in effetti, il videoclip è al MOMA come testimone del suo tempo: nel mio garage c’è il Long Playing (Remain in Light), come testimone del mio.

In America, il sogno si stava trasformando nell’affanno del criceto. I meno dotati, da questa parte dell’oceano, s’impegnavano a recitare un’America “de no’ artri” fatta di hamburgers, stivali Durango, Yamaha Tenerè, felpe Best Company, giubbotti Avirex ed occhiali Ray-Ban. Se qualcuno aveva mai letto qualcosa non era più Sartre, Camus, Nietzsche o Kierkegaard ma George Orwell e Phil Dick. L’esistenza cedeva alla vita, lasciando preoccupanti vuoti d’identità: riempiti dallo shopping. Il massimo dell’impegno consentito era rivolto al disarmo nucleare mentre, a reti unificate, andava in onda Quelli della Notte, Drive-In, Striscia la Notizia e Colpo Grosso. In vetta alla hit parade non c’era David Byrne ma Madonna: come una vergine od in versione materialista, poco importa. Al cinema vendeva bene Spielberg, Guerre Stellari, Rocky, Rambo e Terminator.

Date le premesse, il tratto comune degli esseri pensanti negli anni ’80 è stata la dislocazione letteraria se non proprio la distopia. Non è un caso se, fra i miei libri preferiti, s’affollano 1984, The Road, Fahrenheit 451, Fatherland, Never Let Me Go e, ovviamente, Do Androids Dream of Electric Sheep: sono un ragazzo degli anni ’80. Eppure non avrei mai creduto d’ambientare la mia maturità entro un universo distopico e, soprattutto, farlo da un giorno all’altro: come il cantante dei Talking Heads in quella clip esposta al MOMA.

Magari è capitato anche a voi.

Pochi giorni or sono, credevo d’essere in guerra con il Covid-19: non io solo ma tutta l’umanità! Ero convinto che l’Italia stesse per vivere un nuovo miracolo economico e che l’imperativo di domani fosse la transizione ecologica, il femminicidio e l’immigrazione. Non credevo ch’esistessero ancora gli arsenali nucleari ed ero sicuro che il Parlamento Europeo s’occupasse della giusta dimensione per le banane in commercio. Ricordavo, vagamente, che esisteva qualcosa chiamata NATO ed ero un fermo sostenitore della pace. Quando mi dovevo orientare politicamente, guardavo (non senza disgusto) all’inclinazione del mio cuore. Poi, “ho visto cose che voi umani non potreste neanche immaginare”; non erano al largo dei Bastioni d’Orione (qualunque cosa siano) ma in televisione: la dimensione della realtà condivisa, l’unica disponibile!

Tutto è cominciato con dei militari russi che s’aggiravano per la steppa, in mimetica e senza mascherina. In quel paesaggio monotono, che non distingue una distanza dall’altra, non so come, si devono essere smarriti. Da un giorno all’altro, questi militari, si sono ritrovati nel Paese delle Meraviglie: solo che questo, invece dell’invenzione di Carroll, sembra sia stato quella di Lenin. Fatto sta che si sono ritrovati in un paese oltre lo specchio, che qualcuno chiama Ucraina. Gli abitanti di questo mondo alternativo all’Unione Sovietica se la sono presa a male ed hanno dichiarato guerra a chi ce l’ha mandati: ciò a dire Vladimir Putin. Io l’ho capita così; anche se m’è sembrato strano che un Paese, ancorché fantastico, dichiarasse guerra ad un individuo ed ai suoi amici. Tutti, comunque, gli sono andati dietro per cui, ho pensato, che lo scemo ero io: la Russia, per fortuna, continua a rifornire l’Italia di gas per cui, è chiaro, che la responsabilità per lo sconfinamento oltre lo specchio è tutta, personale, di Alice!

Eppure, prima di darsi dietro al Bian’coniglio, io, Putin, me la ricordo bene. Girava con un panfilo, vestito da Armani. Andava dal suo buon amico, il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, di cui sposava gli interessi: Silvio gli aveva anche regalato un letto per fare pratica. Chissà se si sentono ancora! Giorgia Meloni lo definiva il “difensore della cristianità” ed ora, si dice, abbia spedito a Kiev il suo macellaio di fiducia, Kadyrov: quello che sfiletta gl’infedeli rispettando il Corano (col rito halal). Persino chi l’aveva decretato ad eroe personale, intendo dire l’istrione del Papete, se gli presentano la maglietta con l’effige di Putin, di cui faceva sfoggio qualche tempo fa, si risente. L’ho visto succedere in Polonia, dove Salvini era andato a complicargli un po’ la vita; una maglietta con Putin, esibita da un suprematista polacco persino peggiore di lui: il paladino di Confindustria (se non lui, almeno Giorgetti) se l’è presa a male!

Ho visto la sinistra in piazza. Non ho memoria d’una manifestazione surreale, come quella organizzata dalla CGIL in favore della pace: con le bandiere rosse, la falce ed il martello, e l’arcobaleno della pace. “Siamo qui contro tutte le guerre, contro le mafie: ché le vere vittime delle guerre sono le donne”; forse, qualcuno che m’è sfuggito, avrà pure ricordato che le vere priorità sono la discriminazione di genere (e non economica!) ed il riscaldamento globale: la guerra, una distrazione. Da quel poco che ho capito, dovremmo aiutare gli ucraini con la raccolta differenziata invece di inviargli le armi!

Ho notato che l’Unione Europea è situata a Bruxelles, giusto a pochi passi dalla sede della Nato e che le due istituzioni, formalmente indipendenti, sono perfettamente allineate: che strano. Una si occupava di banane e l’altra sembrava un cadavere della storia (lo sosteneva Macron, fra gli altri): adesso praticano sanzioni economiche e dispiegano truppe. Ho visto riarmarsi la Germania ed uscire dalla neutralità la Finlandia e la Svezia. Ho visto un mondo ridotto a 7 stati (il G7): quando la pretesa del multilateralismo l’aveva estrogenato, almeno, a 20 (il G20).

Ho rispolverato Russians, la hit d’uno Sting quasi imberbe, ed ho controllato quanto mancava alla mezzanotte nel Doomsday Clock. Nell’armadio ho ritrovato le Timberland: le felpe che indossavo a 16 anni, anche se fossero sopravvissute, non mi starebbero più. Se non fosse per qualche dettaglio, giurerei d’aver viaggiato indietro nel tempo, con una DeLoran modificata, per almeno 40 anni. O questo, o l’improvviso risveglio da uno stato comatoso: come in Goodbye Lenin! Persino i lauti, e sostanzialmente sconsiderati, commenti che popolano la rete sembrano essersi annichiliti. Di tutto ciò che avrei considerato attuale, un mese fa, non è rimasta traccia. Non per questo, sembra che domani comincerà il futuro: migliore o peggiore che sia.

Intendiamoci.

Il futuro è quella cosa descritta da Carlo Emilio Gadda in poche righe: “E alle stecche delle persiane già l’alba. Il gallo, improvvisamente, la suscitò dai monti lontani, perentorio ed ignaro, come ogni volta. La invitava ad accedere e ad elencare i gelsi, nella solitudine della campagna apparita”. Persino la cosa più prevedibile del mondo, come l’incedere del giorno, “appare” come un’epifania: perentoria ed ignara, come si presenta ogni volta. Ecco: io credo che sia questo ciò che, convenzionalmente, intendiamo per futuro e che Eraclito seppe chiudere in un aforisma straordinario: panta rei, “tutto scorre”. In buona sostanza, se il presente è percepibile ed il passato è certo, il futuro s’incarica dell’incognito.

Come intendiamo rivolgerci al futuro, all’ignoto?

Per il momento, ed è questo che mi preoccupa, non vedo nessuno (nessuno che conti) disposto a problematizzare il presente ma tanti inclini a farne metafisica. La metafisica, ve lo ricordo, è quella dimensione mistica in cui riveliamo noi stessi piuttosto di ciò che ci circonda: in cui le cose “sono come” altre (“Putin come Hitler”; “Battaglione Azov come SS”; “Ucraina come Afghanistan”; “crisi come i missili di Cuba”; etc.). In poche parole, si fa metafisica ricercando le similitudini confortanti (confortanti nel senso di considerarle note, già viste, piuttosto che faste od infauste), a discapito della “Différance” (Derrida): quel grado d’originalità che identifica Vladimir Putin, od Andrea Pancini, dal novero dell’uomo qualsiasi.

Ebbene: non stiamo procedendo così! Abbiamo dismesso la buona abitudine di mettere le cose di fronte a noi stessi e da queste procedere. In breve, ci siamo completamente smarcati dal divenire e, per ciò, proiettiamo un futuro declinato al passato: eternamente presente, conosciuto, confortante e maneggiabile. Vale a dire tutto ciò che è un rebus (sempre risolvibile con un algoritmo) e non è un problema. Svegliamoci! La crisi ucraina è un problema e come tale ha bisogno di essere considerato; per il fatto ovvio che non è stato mai affrontato da nessuno prima di noi e che non è assolutamente scontato che si risolva. In pochi spiccioli, è una situazione ignota, peculiare ed unica che, nel bene e nel male, rappresenta il nostro futuro: la nostra “unica volta” (einmal, direbbe Nietzsche).

Cerchiamo di affrontarla come se non si trattasse d’un Ritorno al Futuro: anche perché, come suggerisce il brano sulle cui note abbiamo preso le mosse, non si può sperare che sia l’acqua che scorre a trattenerci nella posizione. “Letting the days go by, let the water hold me down”, suggerisce David Byrne, che in Italiano suonerebbe così: Lasciando trascorrere i giorni, fa che l’acqua mi trattenga. Una proprietà che l’acqua, per sua natura, decisamente non dispone.

 

Andrea Pancini
Andrea Pancini
Andrea Pancini è un pettegolezzo che qualcuno ha messo in giro. I ben informati sostengono si tratti d’uno scrittore, in concorso al Premio Campiello 2017. Sembra s’interessi a quello che la gente dimentica: vane speranze, amori desolati, eroi vigliacchi, dolori addominali e varia umanità. C’è chi dice che, prima, sia stato qualcos’altro ma che, d’allora, vaghi la notte al chiarore d’una sigaretta: sempre l’ultima. Ignorato dai più, di lui si sa poco se non l’eco di buone letture: Chanel, Versace, Armani. Ad oggi, si sussurra, viva spiaggiato sullo Stretto di Scilla.

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